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Affrontare le cause dei tassi di interesse bassi

Intervento tenuto da Mario Draghi, Presidente della BCE, in apertura della tavola rotonda dal titolo “Il futuro dei mercati finanziari: una diversa prospettiva sull’Asia” all’Assemblea annuale della Banca asiatica di sviluppo, Francoforte sul Meno, 2 maggio 2016

Il mandato di ciascuna banca centrale è formulato in termini strettamente nazionali. Tuttavia, in un’economia internazionale aperta e integrata, le sfide che si pongono sono spesso piuttosto simili nelle varie giurisdizioni. Negli ultimi anni una particolare sfida è emersa in gran parte del mondo. Mi riferisco al livello estremamente basso dei tassi di interesse nominali.

Oggi il 18% dell’economia mondiale, in termini ponderati per l’interscambio, opera in un contesto in cui i tassi di riferimento delle banche centrali sono negativi e la percentuale sale al 40% se si includono i paesi con tassi compresi fra lo zero e l’1%.

I tassi di interesse molto bassi non sono innocui. Esercitano pressioni sul modello operativo delle istituzioni finanziarie – banche, fondi pensione e compagnie di assicurazione – in quanto comprimono il reddito da interessi. Inoltre questo accade in un momento in cui la redditività è già modesta, il settore deve adeguarsi al processo di abbassamento della leva finanziaria nell’economia avviato dopo lo scoppio della crisi e il quadro regolamentare è in rapida evoluzione.

I bassi rendimenti reali influiscono anche sul reddito dei pensionati, una categoria sempre più numerosa in gran parte delle economie avanzate. I loro consumi durante l’età pensionistica dipendono proprio dai rendimenti che ottengono dai risparmi. Tassi di interesse bassi riducono parimenti il ritmo di accumulo delle attività pensionistiche di chi non ha ancora lasciato il lavoro e anche questo è importante in un contesto in cui una coorte più ampia si avvicina alla pensione.

Vi è la tentazione di concludere che i tassi di interesse molto bassi, poiché generano queste sfide, rappresentano essi stessi il problema. Di fatto non è così. Sono il sintomo di un problema sottostante, che è una domanda mondiale di investimenti insufficiente ad assorbire tutto il risparmio disponibile nell’economia.

È questo fenomeno – l’eccesso di risparmi rispetto agli investimenti remunerativi a livello mondiale – che sospinge i tassi di interesse su livelli estremamente bassi. Il modo corretto per far fronte alle sfide poste dai tassi di interesse bassi non consiste quindi nel tentare di eliminare i sintomi, ma nel combattere la causa di fondo.

Ciò richiede che affrontiamo le determinanti sia di lungo sia di breve termine della scarsa domanda attingendo a questo scopo sia alla politica monetaria sia ad altre tipologie di politiche.

La prospettiva di lungo periodo

In una prospettiva di lungo periodo, i rendimenti obbligazionari nominali sono in calo in tutte le principali economie dagli anni ’80. Si tratta in parte di uno sviluppo positivo, poiché riflette il successo della politica monetaria nel combattere l’inflazione. Ha ridotto non solo l’inflazione attesa ma anche il premio per il rischio di inflazione, vale a dire la maggiorazione richiesta dai prestatori per tutelarsi contro variazioni incerte dei prezzi.

Il calo dei rendimenti nominali va tuttavia attribuito anche alla diminuzione dei rendimenti reali, generati dal saldo tra risparmio e investimento nell’economia.

Un periodo temporaneo di tassi ufficiali prossimi allo zero o addirittura negativi in termini reali non è certo senza precedenti. Negli ultimi decenni abbiamo tuttavia visto i rendimenti a lungo termine scendere anch’essi in termini reali, a prescindere dall’orientamento ciclico della politica monetaria.

Ciò va ricondotto a fattori quali: l’espansione del risparmio netto, in un contesto in cui una popolazione che invecchia accantona risorse in vista del pensionamento; una spesa pubblica in conto capitale relativamente inferiore sullo sfondo di un elevato indebitamento del settore pubblico; una minore crescita della produttività che riduce la redditività degli investimenti. Secondo uno studio, questi fattori possono spiegare circa 400 dei 450 punti base di riduzione dei tassi di interesse reali a lungo termine negli ultimi 30 anni[1].

Le forze in atto sono piuttosto intuitive: se esiste un eccesso di risparmio, i risparmiatori sono in concorrenza tra di loro per trovare qualcuno che ne desideri mutuare i fondi e questo fa scendere i tassi di interesse. Nel contempo, se il rendimento economico di un investimento si riduce per esempio a causa del rallentamento della produttività, gli imprenditori saranno disposti a indebitarsi solo a tassi proporzionalmente inferiori.

In entrambi i casi, i fattori alla base del minore rendimento reale degli investimenti sono di natura strutturale. Inoltre, poiché operiamo in un mercato dei capitali mondiale, questo ha sospinto verso il basso i rendimenti sui risparmi ovunque.

Il ruolo delle economie asiatiche in tutto ciò è stato ben documentato, ad esempio nella tesi della “sovrabbondanza di risparmio a livello mondiale”[2]. Oggi, però, anche l’area dell’euro è protagonista. L’avanzo di conto corrente dell’area è superiore al 3% del PIL e quello della nostra maggiore economia, la Germania, si colloca al di sopra del 5% del PIL da quasi un decennio.

In passato le economie con questi livelli di avanzo avrebbero potuto esportare agevolmente l’eccesso di risparmio in paesi disposti a mutuare tali fondi a tassi superiori. Questo avrebbe evitato il calo che altrimenti sarebbe stato registrato nei tassi di interesse interni. Sarebbe stato inoltre positivo per l’economia mondiale, in quanto i risparmi sarebbero defluiti dalle economie caratterizzate da un invecchiamento demografico e da una crescita più lenta verso quelle caratterizzate da una popolazione più giovane e un più elevato fabbisogno di investimenti.

Tuttavia, in un contesto in cui i rendimenti reali sono bassi ovunque, non vi è altrove nel mondo una domanda di capitali sufficiente ad assorbire l’eccesso di risparmio senza un calo dei rendimenti.

La risposta di lungo periodo al problema di far aumentare i tassi di rendimento in termini reali deve pertanto risiedere in un riequilibrio strutturale tra risparmi e investimenti a livello mondiale. Inoltre, poiché il risparmio connesso agli andamenti demografici resterà presumibilmente elevato, ciò deve passare per un aumento della domanda di capitali. Questo è il motivo per cui le riforme strutturali sono così importanti al momento attuale. Contribuiscono in misura essenziale a stimolare l’incremento della produttività e quindi ad accrescere l’attrattiva degli investimenti.

Il Consiglio direttivo della BCE, il Consiglio europeo e la Commissione europea hanno ripetutamente auspicato l’adozione di tali misure strutturali in Europa. Inoltre, ciò corrisponde esattamente al programma propugnato dal G-20. Il processo ha compiuto dei passi avanti in alcuni paesi, e in particolare in quelli dell’area dell’euro più colpiti dalla crisi, ma nell’insieme procede troppo lentamente.

La prospettiva di breve periodo

Dove entra in gioco la politica monetaria?

Se i fattori strutturali determinano i tassi reali a lungo termine, la politica monetaria influisce sui tassi di interesse nel breve periodo. Lo fa tuttavia solo marginalmente: le banche centrali manovrano i tassi di mercato rispetto al livello dettato da tali forze strutturali. Ciò altera l’attrattiva relativa del risparmio rispetto alla spesa e quindi contribuisce a mantenere il prodotto attorno al suo livello potenziale e assicura la stabilità dei prezzi.

Oggi, posta di fronte a un output gap persistente e a un’inflazione eccessivamente bassa, la nostra politica monetaria stimola l’economia manovrando i tassi di interesse sotto i livelli di lungo periodo e, dato che questi ultimi sono scesi su valori molto bassi, è inevitabile che i tassi di mercato siano caduti su livelli estremamente ridotti e persino negativi per un periodo di tempo protratto al fine di conseguire il giusto grado di sostegno della domanda.

Questo è avvenuto non solo nell’area dell’euro ma anche in Giappone (dove i tassi di riferimento della banca centrale sono vicini allo zero dalla metà degli anni ’90), negli Stati Uniti (in cui si collocano in prossimità dello zero dal 2008 e sono stati innalzati solo una volta da allora, alla fine dello scorso anno) e nel Regno Unito (dove si trovano su livelli appena superiori allo zero ormai da sette anni).

Se le banche centrali non operassero in questo senso, vale a dire se mantenessero i tassi di interesse troppo elevati rispetto ai loro livelli reali, investire non sarebbe appetibile in quanto il costo del credito sarebbe più alto del rendimento. Quindi, l’economia rimarrebbe in recessione. Per contro, mantenendo i tassi di mercato al di sotto del tasso di rendimento reale, incoraggiamo gli investimenti e i consumi necessari a riportare l’economia al suo livello potenziale. Ciò crea a sua volta le condizioni per una normalizzazione della politica monetaria nel tempo.

Potrebbe apparire a prima vista che questa politica penalizzi i risparmiatori a vantaggio dei prenditori di fondi. Di fatto, nel medio periodo una politica espansiva beneficia notevolmente i risparmiatori.

Anzitutto i risparmiatori possono comunque ottenere tassi di rendimento soddisfacenti diversificando le loro attività, anche quando i tassi sui depositi e sui conti di risparmio sono molto bassi. Per esempio, negli Stati Uniti le famiglie detengono circa un terzo delle loro attività finanziarie in azioni; il dato equivalente per Francia e Italia è circa un quinto e per la Germania appena un decimo. Per contro, le famiglie tedesche detengono quasi il 40% delle loro attività sotto forma di contante e depositi e quelle francesi e italiane approssimativamente il 30%. Il dato corrispondente per gli Stati Uniti è meno del 15%.

Ancora più importante è tuttavia considerare che, a prescindere dalle attività finanziarie detenute, i risparmiatori sono sempre titolari di un diritto sul prodotto dell’economia. Quindi il loro interesse coincide in definitiva con quello dell’economia nel suo insieme.

Se le banche centrali non intervenissero per risollevare l’economia in caso di ristagno, che ne sarebbe di questi diritti? Non solo il prodotto si avvicinerebbe più lentamente al suo livello potenziale, ma soprattutto il potenziale stesso risulterebbe eroso. Poiché la disoccupazione resterebbe elevata più a lungo, vi sarebbe una perdita di competenze; inoltre, dal momento che gli investimenti ristagnerebbero per un periodo più prolungato, la capacità produttiva dell’economia risulterebbe durevolmente danneggiata. Una perdita di prodotto indotta dalla crisi diventerebbe quindi permanente e la ricchezza reale dei risparmiatori sarebbe inevitabilmente minore.

In altri termini, se i tassi di interesse bassi potrebbero dare l’impressione di creare un conflitto fra creditori e debitori, ciò non è vero in aggregato e non è sicuramente vero a medio termine. Nell’insieme, risparmiatori e prenditori hanno di fatto lo stesso interesse a vedere l’economia tornare sul suo livello potenziale senza indebiti ritardi e crescere a ritmi tali da generare reddito sufficiente per entrambi. Questo, in ultima analisi, è l’unico modo per tutelare realmente gli interessi dei risparmiatori nel lungo periodo.

Pertanto, la seconda parte della risposta al problema di far salire i tassi di rendimento è chiara: politiche ancora espansive fino a quando l’eccesso di capacità nell’economia non si sarà ridotto e la dinamica dell’inflazione non sarà tornata durevolmente coerente con la stabilità dei prezzi. Non vi è alcuna alternativa oggi.

L’unico possibile margine di manovra risiede nella combinazione delle politiche, vale a dire nell’equilibrio tra la politica monetaria e quella di bilancio. Di fatto, chi auspica un minor ruolo della politica monetaria o un periodo più breve di espansione monetaria implica necessariamente un ruolo maggiore della politica di bilancio per far aumentare la domanda e chiudere l’output gap più rapidamente.

Conclusioni

In sintesi, il contesto mondiale di tassi di interesse bassi è il sintomo e non la causa delle difficoltà esistenti nell’economia internazionale. Per far risalire i tassi di interesse su livelli durevolmente più elevati, dobbiamo affrontare le cause di fondo. Questo è vero su scala globale e vale anche nell’area dell’euro.

Nell’area dell’euro serve una politica espansiva di stabilizzazione del quadro macroeconomico per sostenere la domanda, iniziando evidentemente dalla politica monetaria. Ciò permetterà all’inflazione di riportarsi sul nostro obiettivo e, con il tempo, ai tassi di interesse ufficiali di risalire sui loro livelli di lungo periodo.

Tuttavia, la politica monetaria non può alzare i tassi reali a lungo termine. Questo risultato può essere conseguito solo da riforme strutturali che determinino un riequilibrio strutturale di risparmi e investimenti. Rendimenti reali più elevati sui risparmi devono costituire la risultante di azioni decisive dal lato dell’offerta.

In questo contesto esiste anche un terzo tipo di politica che sosterrebbe sia la domanda nel breve periodo sia l’offerta a medio termine e che costituisce una peculiarità dell’Europa. Mi riferisco a una riforma impegnata della governance dell’area dell’euro in grado di fugare i dubbi residui sul suo futuro.

Sembra evidente che i punti interrogativi riguardo al futuro dell’area dell’euro, e dell’Unione europea in generale, contribuiscono ad accrescere l’incertezza per singoli e imprese e che questo può frenare i consumi e gli investimenti. Eliminando questa incertezza si contribuirà a promuovere i consumi e gli investimenti in tutto il continente.

È quindi fuori di dubbio, a mio parere, che le riforme istituzionali nell’Unione europea e nell’area dell’euro offrono reali benefici economici. Per quanti auspicano il ritorno dei tassi di interesse su livelli più normali, questo costituisce una parte essenziale della soluzione.

  1. [1]Rachel, L. e T. Smith (2015), “Secular drivers of the global real interest rate”, Bank of England Staff Working Paper, n. 571.

  2. [2]Cfr. Bernanke, B. (2005), “The Global Saving Glut and the U.S. Current Account Deficit”, Sandridge Lecture, Virginia Association of Economics, Richmond, Virginia, Federal Reserve Board, marzo 2005.

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