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Squilibri Globali – Politiche Globali

Discorso di Lorenzo Bini Smaghi, Membro del Comitato esecutivo della BCEProlusione al 253° Anno Accademico dei GeorgofiliSalone dei Cinquecento a Palazzo VecchioFirenze, 27 aprile 2006

Signor Sindaco, Signor Presidente dell’Accademia, Accademici, Autorità, Signore e Signori

È un onore, e un grande piacere - anche e soprattutto come fiorentino - inaugurare questo Anno Accademico.

Nel titolo della mia prolusione c’è due volte la parola “globale”. E’ una parola alla moda, che caratterizza però il contesto in cui devono oramai essere esaminati gli andamenti economici internazionali e le politiche economiche.

Nel mio intervento, intendo descrivere brevemente gli elementi salienti del processo di globalizzazione che sta caratterizzando l’economia mondiale. Esaminerò in seguito come, in un contesto di crescente integrazione, i comportamenti degli operatori e le politiche economiche messe in atto nei vari paesi hanno determinato squilibri economici e finanziari crescenti che non sembrano sostenibili nel tempo. Delineerò poi alcuni possibili scenari di aggiustamento, alcuni ordinati, altri più turbolenti per l’economia reale e finanziaria. Lo scenario desiderabile, che consente di preservare la crescita economica mondiale su ritmi sostenuti, comporta un accentuato coordinamento delle politiche economiche, sia all’interno dei singoli paesi, sia tra le principali aree. Tuttavia, il coordinamento delle politiche economiche è reso più complesso dal processo di globalizzazione, che richiede maggior complementarietà di azione. In questo contesto, l’Europa non è ancora attrezzata per dare un contributo al governo dell’economia globale che sia all’altezza del suo peso relativo nell’economia mondiale.

La globalizzazione dell’economia

La globalizzazione è un processo in atto da tempo. Negli ultimi anni ha subito un’accelerazione, per effetto sostanzialmente di due fattori.

Il primo è la straordinaria riduzione dei costi di transazione, in particolare i costi di trasporto, che ha favorito la mobilità dei beni, dei servizi, dei capitali e del lavoro. Se si pensa che il trasporto via mare da Hong Kong al porto di Rotterdam costa meno che il successivo trasporto all’interno del continente, via terra, per i successivi 100 chilometri, si capisce come tra il 1990 e il 2005 il commercio mondiale sia passato da meno del 20 per cento circa del prodotto mondiale a quasi il 30. Il processo di integrazione ha riguardato i mercati finanziari. Gli investimenti diretti esteri sono cresciuti, nello stesso periodo, dall’8 al 22 per cento del prodotto. Lo stesso è avvenuto per gli investimenti di portafoglio. È oramai diventato uno standard di mercato per un gestore offrire ai propri clienti fondi azionari e obbligazionari esteri.

Il secondo fattore di accelerazione del processo di globalizzazione è stata l’accettazione dei principi di economia di mercato da parte di quasi tutti i paesi in via di sviluppo, dalla Cina all’India, all’America latina, a molti paesi africani. Sono state abbandonate le ideologie dell’economia gestita dallo Stato e accettate le regole della concorrenza internazionale. Questo è un fenomeno spesso dimenticato ma che negli ultimi 20 anni ha contribuito a far uscire dalla povertà oltre 200 milioni di persone, secondo una stima della Banca Mondiale.[1]

Sembra addirittura che i principi dell’economia di mercato siano più accettati nei paesi emergenti, come la Cina, che in alcuni paesi europei. Ad esempio, un recente sondaggio condotto per l’Università del Maryland sull’accettazione da parte dei cittadini dell’economia di mercato, in Francia solo il 36 per cento è favorevole, in Italia il 59 per cento, in Germania il 65. C’è una maggiore accettazione del mercato in Nigeria, in India, in Corea, nelle Filippine e addirittura in Cina, con il 74 per cento.

Il processo di globalizzazione è stato accompagnato da una forte crescita dell’economia mondiale. Nell’ultimo triennio il prodotto mondiale è cresciuto a un ritmo del 4,7 per cento annuo, il più elevato degli ultimi trent’anni per un periodo analogo. La crescita è stata sostenuta in tutte le regioni, compresa l’Africa dove negli anni ‘90 il prodotto pro capite si era contratto.

La globalizzazione rende ogni paese e ogni attore economico più piccolo, più interdipendente e per certi versi più vulnerabile agli shock esterni. Anche le economie più grandi, come quella degli Stati Uniti, vengono influenzate da eventi esterni. Vedremo tra poco, ad esempio, come le decisioni di risparmio e di investimento dei cittadini statunitensi sono influenzate dalle scelte fatte dall’altra parte del pianeta. In questo contesto, le distorsioni nell’allocazione delle risorse in una parte del mondo creano distorsioni in altre parti, con reazioni a catena che alla fine rischiano di essere dannose per tutti. Ad esempio, la politica agricola europea e americana, che tende a impedire la crescita del commercio internazionale di questi prodotti, induce altri paesi a seguire politiche di incentivazione opposte, a favore dei manufatti, con effetti diretti sui paesi industriali. Un altro esempio sono i sussidi che vengono dati in alcuni paesi emergenti ai consumi energetici, che aumentano la domanda mondiale e di conseguenza i prezzi internazionali, indebolendo gli incentivi per un uso più efficiente delle risorse a livello mondiale.

In sintesi, la globalizzazione significa maggior interdipendenza. Significa anche che ogni operatore, per poter massimizzare le proprie scelte economiche, deve tener conto delle scelte degli altri, anche di chi risiede dall’altra parte del globo. Questo non vale solo per i singoli individui ma anche per le aziende, per le parti sociali, per gli amministratori locali e per i governi. Operare in una realtà globale richiede una conoscenza globale. Per capire i problemi delle nostre economie e prendere decisioni adeguate, si deve innanzitutto capire gli andamenti delle altre economie e come questi andamenti possono incidere sulle nostre.

Globalizzazione e squilibri

Squilibri economici e finanziari

L’economia mondiale è attualmente caratterizzata da alcuni squilibri, interconnessi e che in parte si alimentano l’un l’altro. Questo è il motivo per cui tali squilibri vengono definiti globali. In questa prolusione mi concentrerò sugli squilibri di natura economica e finanziaria che di questi tempi maggiormente preoccupano le istituzioni internazionali, ossia quelli che nascono dai divari di crescita e di comportamento degli investitori e dei risparmiatori.

Gli squilibri economici e finanziari, se sostenibili, non sono necessariamente negativi. Anzi, possono favorire una crescita maggiore perché consentono di finanziare una dinamica più elevata dei consumi e degli investimenti attingendo in particolare a capitali esterni.

Negli anni recenti, gli squilibri tra le principali aree economiche si sono ampliati. Il proseguimento di queste tendenze non è però sostenibile. L’aggiustamento può avvenire sia attraverso l’azione della politica economica, sia per l’effetto delle forze di mercato. Il modo in cui l’aggiustamento si svolgerà inciderà sullo sviluppo dell’economia mondiale nei prossimi anni.

Non vi è incontro internazionale di politica economica, non ultimo la riunione del Fondo Monetario Internazionale della settimana scorsa, in cui questo problema non sia tra i principali argomenti di discussione. Ci si interroga, in particolare, sulla sostenibilità degli squilibri attuali e sui rischi di instabilità che potrebbero derivare da una loro brusca correzione.

Gli squilibri sono il frutto dei comportamenti e delle politiche messe in atto sostanzialmente in tre grandi aree economiche. La prima è il Nord America, con una popolazione in crescita, un livello di vita elevato e politiche di stimolo della domanda, soprattutto quella pubblica. La seconda area è costituita dall’Asia, in particolare la Cina, con un livello di vita medio ancora basso, una popolazione che invecchia e una politica di sviluppo incentrata soprattutto sul commercio internazionale e l’export. L’India e altri paesi emergenti, inclusi quelli esportatori di petrolio, sono in una posizione simile a quella della Cina, sebbene con una popolazione ancora in crescita. La terza area è costituita dall’Europa continentale, con una popolazione stagnante e che invecchia, un livello di vita elevato ma in flessione rispetto a quello del Nord America, e un insufficiente utilizzo delle risorse, in particolare il lavoro. Il Giappone è in parte simile all’Europa in termini di invecchiamento della popolazione e di livello di vita.

Descriverò in modo sintetico gli squilibri economici di queste tre aree.

Il disavanzo esterno degli Stati Uniti

Gli Stati Uniti registrano un disavanzo delle partite correnti da oltre dieci anni. Questo significa che ogni anno il paese si indebita con il resto del mondo. Lo scorso anno il passivo ha raggiunto il 6,5 per cento del Prodotto lordo. È previsto un lieve aumento anche quest’anno. Il motivo principale è il basso tasso di risparmio pubblico e privato degli americani. Questo è legato alla dinamica demografica e alle aspettative degli americani di una crescita continua della loro produttività. Vi contribuisce anche un disavanzo pubblico elevato, soprattutto nell’attuale fase ciclica, e una struttura della tassazione che tende a scoraggiare il risparmio e ad incoraggiare l’indebitamento, soprattutto per l’acquisto di immobili. Il risparmio netto delle famiglie è stato addirittura negativo nel 2005.

A forza di accumulare passivi esterni, il debito netto con il resto del mondo è stimato vicino al 30 per cento del Prodotto nel 2005. A questo ritmo, l’indebitamento esterno netto potrebbe raggiungere il 100 per cento del Prodotto in meno di 10 anni.

C’è chi minimizza questo sbilancio, argomentando che è soprattutto di natura contabile, senza conseguenze finanziarie. Secondo questa tesi le attività estere degli operatori americani sarebbero sottovalutate rispetto al valore dgli investimenti. Questo verrebbe confermato dal saldo attivo tra i redditi sulle attività americane all’estero e i redditi pagati sugli investimenti esteri in America. L’argomento non è però convincente. I dati sui redditi da capitali vengono registrati soprattutto dalle autorità fiscali e l’incentivo a dichiarare i dati non è lo stesso negli Stati Uniti rispetto ad altri paesi.

Vi è un ampio consenso che gli attuali squilibri non siano sostenibili. La domanda non è se gli squilibri si aggiusteranno ma come e quando. La risposta dipende principalmente da due fattori. Il primo riguarda la capacità degli operatori americani di continuare ad indebitarsi. Il secondo dipende dalla disponibilità del resto del mondo ad acquistare dollari e a finanziare degli Stati Uniti.

Riguardo alla capacità degli operatori statunitensi di indebitarsi per finanziare un ritmo di consumi superiore alla produzione, bisogna distinguere tra il settore pubblico e quello privato. Per quel che riguarda i privati, l’aumento della ricchezza, soprattutto immobiliare, delle famiglie, è stata “messa a frutto” in questi anni per accrescere le disponibilità di finanziamento. Il forte aumento della produttività e la flessibilità del mercato del lavoro americano hanno consentito di mantenere elevate le retribuzioni. La quota del lavoro sul totale del valore aggiunto è rimasta sostanzialmente stabile negli ultimi 15 anni (mentre si è fortemente ridotta in Europa). Il sistema finanziario statunitense ha saputo cogliere la domanda di finanziamenti, e di rifinanziamenti, offrendo prodotti innovativi agli operatori. I bassi tassi d’interesse degli ultimi 4 anni hanno favorito, da un lato, l’aumento del valore degli immobili, accrescendo così la capacità di finanziamento delle famiglie, e, dall’altro, la riduzione del costo del debito.

Il secondo fattore che incide sulla sostenibilità del passivo americano è la disponibilità del resto del mondo a continuare a finanziare l’economia statunitense e a detenere attività denominate in dollari. Questa disponibilità è stata molto ampia negli anni passati, per effetto della forte crescita dell’economia americana, dell’ampia liquidità del sistema finanziario statunitense e della garanzia fornita dai titoli in dollari. Il finanziamento estero ha in parte evitato o rimandato l’aggiustamento.

La domanda che ci si pone è fino a quando durerà. Parte della risposta deve essere cercata nell’analisi degli squilibri, di segno opposto, che si registrano nei paesi emergenti, in particolare la Cina, sui quali tornerò tra breve.

L’accumulazione di attività finanziarie in dollari comporta due tipi di rischi. Il primo è il rischio di cambio. Un deprezzamento del dollaro determina una perdita in conto capitale per gli operatori esteri che detengono attività in dollari. Questo rischio viene detenuto quasi interamente dagli operatori stranieri. Questo è quello che il Generale De Gaulle chiamava il “privilegio esorbitante” degli Stati Uniti. Con l’euro, però, gli investitori internazionali hanno la possibilità di usare un’altra valuta di riserva internazionale. Se il dollaro diventa troppo rischioso, e tende a deprezzarsi, gli operatori internazionali possono diversificare il loro portafoglio e coprirsi dal rischio di cambio. Questo può far aumentare il tasso d’interesse sulle attività denominate in dollari, con effetti restrittivi per l’economia americana. Se tutti gli operatori si coprono dal rischio di cambio allo stesso tempo, si possono innescare reazioni incontrollate sui mercati valutari e dei capitali, con ripercussioni sull’intera economia mondiale.

La sostenibilità del finanziamento esterno alla bilancia dei pagamenti americana pone un altro problema, finora poco analizzato. Uno strumento per diversificare il rischio connesso ai titoli in dollari è costituito dai titoli azionari statunitensi, soprattutto di aziende esportatrici. Lo spostamento dai titoli di Stato a investimenti diretti avrebbe un effetto favorevole sull’economia americana ma potrebbe porre problemi politici. Cosa succederebbe, ad esempio, se la Cina e gli altri paesi asiatici o esportatori di petrolio iniziassero ad investire massicciamente in settori strategici per l’economia statunitense, o a scalare la proprietà di banche, assicurazioni o aziende, nel settore dell’informatica o dell’energia? Alcuni casi concreti si sono già verificati, nel settore petrolifero o in quello dei servizi portuali, creando forti preoccupazioni all’interno degli Stati Uniti. Se emergesse in quel paese una tendenza sfavorevole all’investimento straniero, la propensione a detenere attività finanziarie in dollari si ridurrebbe fortemente, con possibili contraccolpi sui mercati.

Il surplus esterno dei paesi emergenti

Passiamo ora allo squilibrio esterno di segno opposto, l’attivo dei paesi emergenti, in particolare quelli asiatici, e quelli esportatori di petrolio. Mi concentrerò in particolare sul caso specifico della Cina.

La Cina registra un attivo della Bilancia corrente pari a oltre il 6 per cento del suo Prodotto lordo. Aggiungendovi il flusso degli investimenti diretti, si arriva a un attivo della bilancia di base pari a quasi il 10 per cento del Pil.

La causa principale dell’avanzo della bilancia dei pagamenti cinese è la forte propensione al risparmio. In media la Cina ha un tasso di risparmio pari a oltre il 50 per cento del Prodotto lordo. La propensione al risparmio nasce innanzitutto dal processo di invecchiamento della popolazione, derivante dalla politica di controllo delle nascite. Inoltre, la transizione verso l’economia di mercato ha comportato lo smantellamento del tessuto sociale, che non è più in grado di fornire servizi primari come la sanità, l’educazione, il trattamento pensionistico. Questo induce i cittadini a un ulteriore risparmio, di natura precauzionale. Infine, l’arretratezza del sistema finanziario e la politica dei bassi tassi d’interesse non consente di canalizzare il risparmio verso investimenti interni produttivi. Il sistema bancario cinese è fortemente appesantito dalle quantità di prestiti inesigibili.

L’altro fattore che influisce sull’attivo della bilancia dei pagamenti è l’incentivazione delle esportazioni, attuata attraverso una politica di fissazione del cambio su un livello molto competitivo. Di recente la Cina è diventata il terzo esportatore e importatore mondiale, superando il Giappone.

La scelta di far trainare la crescita economica dalle esportazioni, secondo un modello simile a quello seguito in passato dai paesi europei, in particolare dalla Germania nell’ultimo dopoguerra, nasce da considerazioni di carattere economico e politico. La prima è che il settore esposto alla concorrenza internazionale è quello dove più facilmente si possono attirare investimenti esteri e trarre benefici dai trasferimenti di tecnologia, in virtù degli ovvi vantaggi comparati della manodopera cinese. Questi finanziamenti vengono erogati dall’estero, nonostante l’eccesso di risparmio cinese. Questo è dovuto all’arretratezza del sistema finanziario cinese, che non consente di selezionare in modo adeguato gli investimenti produttivi.

Lo sviluppo basato sulle esportazioni consente anche di creare poli di attrazione per la migrazione dalle campagne. Questa migrazione, mossa dal desiderio di milioni di contadini di migliorare il loro tenore di vita, costituisce uno dei punti più delicati dell’attuale fase di sviluppo della società cinese e vincola le scelte di politica economica. Per essere politicamente sostenibile, l’economia cinese deve crescere a un ritmo tale da assicurare un tasso di occupazione che consente di assorbire l’offerta di manodopera proveniente dalle campagne.

Conoscendo l’importanza che hanno avuto le problematiche contadine nelle precedenti fasi di sviluppo economico e politico della Cina, si capisce la riluttanza delle autorità a lasciare che i prezzi dei prodotti agricoli varino solo in funzione dei mercati internazionali. In particolare, un calo eccessivo dei prezzi relativi dei prodotti agricoli potrebbe accelerare il flusso migratorio dalle campagne, ben oltre la capacità di assorbimento nel settore industriale e delle costruzioni, creando disoccupazione e instabilità sociale, anche per effetto dell’assenza di meccanismi di protezione, come ho ricordato prima. Questo spiega la prudenza delle autorità cinesi con la politica del cambio. In effetti, sebbene lo yuan dovrebbe fortemente apprezzarsi in base alla competitività dei prodotti industriali cinesi e all’attivo della bilancia dei pagamenti, tale apprezzamento avrebbe l’effetto di ridurre i prezzi dei prodotti importati, ossia soprattutto i prodotti agricoli, penalizzando il reddito di circa 800 milioni di contadini cinesi e potenzialmente accelerandone la migrazione interna.

Questo tipo di preoccupazione non è dissimile da quello che portò alla creazione della politica dei montanti compensativi agricoli in Europa, nell’ambito del sistema monetario europeo. Quel meccanismo aveva come obbiettivo di compensare i redditi agricoli nel caso di modifiche del tasso di cambio all’interno dell’Europa.

Può essere interessante aprire una breve parentesi su come, in una economia globale, le politiche settoriali e del cambio messe in atto in alcuni paesi impattano su altri paesi e aree e inducono reazioni che poi si ripercuotono sui primi, creando forti distorsioni nel sistema produttivo mondiale. Ad esempio, i sussidi al settore agricolo nei paesi industriali e le barriere tariffarie hanno contribuito a ridurre l’accesso da parte dei paesi in via di sviluppo ai mercati dei paesi più ricchi. Il commercio internazionale dei prodotti agricoli è tuttora dominato dai paesi avanzati. L’Unione europea, ad esempio, importa beni agricoli dall’esterno solo per lo 0,6 per cento del Prodotto.[2] Questo crea un incentivo per i paesi in via di sviluppo ad investire nel settore manifatturiero, che a sua volta si ripercuote in modo negativo sul settore industriale dei paesi avanzati, alimentando pressioni protezionistiche.

Nonostante i fattori che spiegano il modello di sviluppo cinese, esso appare difficilmente sostenibile nel tempo.

Innanzitutto, l’enorme accumulazione di riserve internazionali provocata dalla politica del cambio sottovalutato comporta un forte rischio. Si stima che un eventuale apprezzamento del 10 per cento della valuta cinese nei confronti del dollaro determinerebbe una perdita in conto capitale di circa 90 miliardi di dollari, 30 volte il valore del capitale della Banca centrale cinese. L’immobilizzo di ingenti riserve appare peraltro difficilmente giustificabile e poco efficiente, a fronte delle enormi esigenze di sviluppo socio-economico del paese.

Un altro elemento di insostenibilità deriva dal fatto che il regime di cambio impone un tasso d’interesse troppo basso rispetto alla dinamica dell’economia cinese. Questo favorisce una crescita eccessiva del credito interno e il rischio di alimentare ulteriormente la già grande quantità di prestiti inesigibili. In prospettiva, vi è un rischio che la già fragile situazione bancaria cinese possa peggiorare.

Le autorità cinesi appaiono pienamente consapevoli della fragilità dell’attuale situazione ma i cambiamenti avengono con tempi non brevi.

Lo squilibrio interno dell’Europa

Passiamo alla terza grande area caratterizzata da uno squilibrio, sebbene di natura diversa rispetto alle altre due perché principalmente interno: l’Europa, e l’area dell’euro in particolare.

L’area dell’euro registra da anni un sostanziale equilibrio della Bilancia dei pagamenti. Per questo motivo, alcuni ritengono che non sia direttamente coinvolta nel processo di aggiustamento degli squilibri internazionali. Questo è un errore di valutazione, determinato da una mancata percezione della dimensione globale degli squilibri. In una economia globale, gli squilibri interni non sono disgiunti da quelli esterni. Lo squilibrio interno dell’Europa, caratterizzato da crescita bassa e da una elevata disoccupazione, è anch’esso il riflesso dell’integrazione economica mondiale. Se l’Europa è in sostanziale equilibrio della bilancia dei pagamenti, non è perché registra un forte aumento della sua competitività, bensì perché i consumi e gli investimenti aumentano a un ritmo lento, per effetto della bassa fiducia. L’Europa non si indebita perché cresce poco e non ha fiducia nel proprio futuro. Questo squilibrio è altrettanto serio di quello delle altre due aree.

Sui risultati modesti dell’economia europea è inutile dilungarsi. Ricordo solo che nel 2006, per il sesto anno consecutivo, l’area dell’euro sarà ancora tra quelle a ritmo di crescita meno elevato, più basso non solo degli Stati Uniti e della Cina ma anche del Giappone e dell’Africa. Il tasso di disoccupazione è previsto rimanere al disopra dell’8 per cento, superiore a qualsiasi altra economia avanzata.

I fattori di tale crisi sono noti, e sono gli stessi che rendono l’Europa vulnerabile ai cambiamenti che caratterizzano l’economia mondiale. Nascono anche da un problema culturale, legato forse al processo di invecchiamento della popolazione: la paura della globalizzazione e l’incapacità di modificare i propri comportamenti per coglierne i vantaggi. A questo timore si aggiunge il ritardo con cui l’Europa si sta dotando delle strutture istituzionali necessarie per cercare di governare, o di partecipare al governo della globalizzazione, argomento sul quale tornerò tra poco.

L’atteggiamento difensivo, anche di certi economisti, rispetto alla globalizzazione, nasce in parte dalla convinzione che negli ultimi anni gli sviluppi internazionali abbiano avuto un effetto negativo sull’economia europea, in particolare sull’area dell’euro, come confermerebbe il fatto che il saldo dei pagamenti con l’estero si è andato deteriorando negli ultimi anni.

Sembrerebbero confermare questa valutazione l’aumento del prezzo del petrolio, l’apprezzamento del tasso di cambio dell’euro, l’accresciuta competitività dei nuovi paesi emergenti. Questa però è una visione parziale. Non tiene conto del fatto che, nell’economia globale, non si possono isolare gli effetti dei singoli fenomeni. Un esempio è l’aumento del prezzo delle materie prime registrato in questi ultimi anni. Sembrerebbe intuitivo affermare che questo aumento abbia avuto un effetto negativo sulle economie europee, attraverso la riduzione delle ragioni di scambio e dunque dei consumi. Per dare una valutazione complessiva, bisogna però esaminare se l’aumento del prezzo sia dovuto a una riduzione dell’offerta, come lo fu negli anni settanta, o a un aumento della domanda mondiale. Negli ultimi anni, è opinione comune che l’aumento del prezzo del petrolio sia stato provocato da un aumento della domanda mondiale, che ha comportato altri effetti positivi per l’economia europea, in particolare l’aumento delle esportazioni. Certo, sarebbe stato meglio avere l’aumento della domanda mondiale senza gli aumenti sul prezzo del petrolio, ma questo non sarebbe coerente con la globalizzazione dell’economia.

Altri aspetti che vengono ignorati nell’analisi parziale riguardano il miglioramento del potere d’acquisto dei consumatori derivante dalla riduzione dei prezzi dei beni importati, che si traduce in un aumento delle ragioni di scambio e in contenimento dell’inflazione. Infine, l’abbondante afflusso di risparmio dai paesi emergenti verso quelli industriali ha contribuito a ridurre i tassi d’interesse, favorendo la ristrutturazione delle aziende e l’acquisto di immobili.

Guardando alle interazioni globali, nell’ambito di un modello macroeconomico generale, che viene descritto nell’appendice, risulta che il contesto internazionale ha fornito nel suo insieme un contributo positivo alla crescita dell’area dell’euro, pari in media allo 0,3 per cento all’anno nel periodo 2000-05, a fronte di una crescita media dell’1,8 per cento. Il contributo esterno alla crescita europea avrebbe potuto essere ancora maggiore se la struttura e i comportamenti economici fossero stati maggiormente capaci di sfruttare i vantaggi comparati e di adeguarsi alle nuove opportunità, come è avvenuto in alcuni paesi, ma non in altri.

La globalizzazione favorisce anche la diffusione di dati e di informazioni sulle diverse economie, agevolando il confronto oggettivo sui motivi per cui alcuni paesi hanno avuto maggior successo nel stare al passo della globalizzazione. Numerose analisi del Fondo Monetario Internazionale o dell’OCSE mostrano come i paesi che crescono meno sono tendenzialmente quelli dove i mercati sono più rigidi, dove i tassi di partecipazione al lavoro sono più bassi, soprattutto il lavoro femminile, dove i tassi di scolarità sono più bassi, dove la dinamica del costo del lavoro non è in linea con la produttività, dove i sistemi di welfare non sono sostenibili, dove le politiche di bilancio arrancano, e via dicendo.[3]

Dalle analisi e dai confronti internazionali dovrebbero emergere indicazioni chiare ed oggettive sugli esempi da seguire per massimizzare i benefici della globalizzazione. Non sempre è così. Spesso chi rimane indietro nella competizione internazionale, chi ha meno successo, tende a cercare scuse, a scaricare colpe sugli altri (e l’Europa è uno dei capri espiatori preferiti), a invocare ritorsioni, a difendere diritti acquisiti, a cercare protezioni. Emblematico è il caso del Giappone, che ha dovuto attraversare un lungo periodo di deflazione prima di affrontare di petto i problemi economici strutturali. Nel frattempo, il reddito pro capite dei giapponesi è rismasto stagnante dai primi anni ’90 in poi e il paese ha perso almeno una decade di crescita economica.

In questo senso, anche la situazione europea non appare sostenibile. La vera questione è quanto tempo ci vorrà prima che i cittadini europei capiscano che per mantenere il proprio livello di vita devono riformare profondamente il loro sistema economico.

In conclusione, la situazione economica mondiale appare caratterizzata da ampi squilibri, strettamente legati tra loro, che riflettono un diverso impiego delle risorse disponibili a livello globale. L’analisi di questi squilibri porta a una conclusione ampiamente condivisa: non sono sostenibili nel tempo.

Gli scenari di aggiustamento

Si possono ipotizzare vari scenari di aggiustamento degli squilibri internazionali. Ne descriverò tre. Il primo è uno scenario benigno, nel quale il venir meno di quei fattori che erano all’origine degli squilibri determina un aggiustamento graduale e ordinato. Il secondo scenario considera la possibilità di un aggiustamento disordinato, guidato principalmente dai mercati finanziari, dove i dubbi sulle condizioni di sostenibilità possono determinare variazioni repentine dei prezzi delle attività finanziarie. Il terzo scenario è quello in cui l’aggiustamento viene assecondato da politiche economiche coerenti tra le principali aree, che tengano in considerazione sia l’equilibrio interno che esterno.

L’aggiustamento benigno

Uno scenario di aggiustamento graduale dovrebbe comportare innanzitutto una ripresa del risparmio negli Stati Uniti, su livelli compatibili con il tasso di accumulazione di lungo periodo. Un connesso rallentamento dei consumi avrebbe un effetto di contenimento sulle importazioni e di progressiva riduzione dello squilibrio esterno. Questo scenario potrebbe realizzarsi in particolare se si stabilizzasse la dinamica dei prezzi immobiliari, sì da rallentare l’indebitamento delle famiglie, che negli anni recenti è cresciuto a ritmi elevatissimi.

Gli sviluppi recenti dovrebbero favorire questo tipo di scenario. L’aumento dei tassi d’interesse in atto negli Stati Uniti da circa due anni sta raffreddando il mercato immobiliare. Il mantenimento dei prezzi dei prodotti energetici su livelli elevati dovrebbe ulteriormente rallentare i consumi delle famiglie americane.

Con il raffreddamento dei consumi americani questo scenario rischia di comportare un rallentamento della crescita dell’economia mondiale. Questo rischio potrebbe essere attenuato se il calo dei consumi fosse compensato da una ripresa degli investimenti e delle esportazioni, indotta da un relativo allentamento delle condizioni finanziarie e da un miglioramento della posizione competitiva statunitense.

Un ulteriore effetto positivo potrebbe venire da una riduzione del risparmio nei paesi asiatici, in particolare in Cina, e da un aumento dei consumi privati e degli investimenti. Il governo cinese ha di recente riconosciuto la necessità di aumentare la spesa sociale, per favorire uno sviluppo equo e sostenibile. Non è però chiaro quanto rapidamente questo potrà tradursi in una dinamica più sostenuta della domanda interna.

Per l’economia europea, il graduale rallentamento dell’economia americana potrebbe rappresentare un freno. Questo effetto potrebbe essere in parte controbilanciato da un aumento delle esportazioni verso l’Asia, nel caso in cui la domanda interna di quei paesi accelerasse, e verso i paesi esportatori di petrolio. In effetti le esportazioni verso gli Stati Uniti rappresentano circa il 15 per cento del totale, contro il 4 della Cina, il 3 del Giappone e l’11 del resto dell’Asia. Nel complesso, le economie asiatiche hanno un peso maggiore di quello degli Stati Uniti per quel che riguarda l’export dei paesi europei. Questo dipenderebbe dalla capacità degli esportatori europei di spostarsi in modo rapido e flessibile da un mercato all’altro.

L’aggiustamento disordinato

Il secondo scenario è caratterizzato da un movimento repentino dei mercati, che non sarebbero più disposti a finanziare gli squilibri attuali alle condizioni vigenti. I tassi di cambio e d’interesse si muoverebbero rapidamente per equilibrare domanda e offerta di attività finanziarie denominate in valute diverse.

L’impatto di questo scenario è difficile da valutare. Dipende in parte dalla relazione tra gli andamenti dei mercati finanziari e quelli reali, che non sempre è lineare. Per quel che riguarda gli Stati Uniti, alcuni stimano che un aggiustamento, anche brusco, del tasso di cambio del dollaro avrebbe degli effetti molto limitati sull’economia. Secondo questa analisi, i tassi d’interesse americani a breve e a lungo termine sarebbero influenzati principalmente da fattori interni. I mercati dei capitali statunitensi non risentirebbero delle variazioni dei tassi di cambio. A conferma di questa tesi sarebbe la grande flessibilità dell’economia americana e la sua capacità di adattamento agli shock, verificatasi anche di recente dopo lo scoppio della bolla informatica alla fine del 2000, dopo gli effetti dell’11 settembre, lo shock petrolifero e la guerra in Iraq. Precedenti esperienze di aggiustamento del tasso di cambio del dollaro, ad esempio nella seconda metà degli anni ‘80, confermano che gli effetti inflazionistici di un deprezzamento del dollaro potrebbero rimanere limitati.

A mio avviso, questi argomenti vanno usati con cautela. L’esperienza degli anni ‘80 non è del tutto comparabile alla situazione attuale. Nel 1985 l’economia statunitense era meno dinamica, con un tasso di disoccupazione di oltre il 7 per cento, il che contributi ad attenuare gli effetti inflazionistici. Nella situazione attuale, con una economia prossima al pieno impiego, un deprezzamento del dollaro avrebbe effetti di ulteriore stimolo sulla domanda, con inevitabili pressioni sui prezzi. Un aumento dei tassi d’interesse a breve termine, e forse anche a lungo termine, potrebbe essere necessario per contrastare le pressioni sui prezzi. Non si potrebbero escludere, in questo caso, ripercussioni sui mercati azionari e immobiliari, e forse anche obbligazionari.

Un altro fattore di incertezza è costituito dalla reazione dei mercati petroliferi a eventuali turbolenze sui mercati valutari. Non è escluso che un deprezzamento del dollaro induca gli esportatori di materie prime ad aumentare le quotazioni espresse in dollari. Questo rischierebbe di peggiorare ulteriormente la bilancia dei pagamenti statunitense.

Un altra differenza con gli anni ‘80 è che il dollaro non è più l’unica valuta di riserva internazionale. L’euro e lo yen costituiscono investimenti alternativi altrettanto sicuri. L’esperienza recente ha mostrato che i tassi di rendimento sulle attività finanziarie in euro e in yen possono rimanere a lungo più bassi di quelli in dollari, a conferma del minor rischio. Variazioni brusche dei tassi di cambio potrebbero indurre gli operatori internazionali a chiedere un premio aggiuntivo per detenere attività finanziarie denominate nella valuta statunitense.

Nel complesso, non è prudente sostenere che nell’attuale contesto di economia globale i mercati dei capitali americani siano impermeabili alle condizioni internazionali, in particolare a variazioni delle preferenze di investimento degli operatori stranieri. Se si concorda con l’ipotesi che l’eccesso di risparmio mondiale (“savings glut”) sia stato uno dei motivi principali dei recenti bassi tassi d’interesse, non si può, per coerenza di ragionamento, ritenere che una eventuale riduzione dell’eccesso di risparmio non abbia, in prospettiva, alcun effetto sui tassi americani.

Per l’Europa, lo scenario disordinato comporterebbe una perdita di competitività, con effetti negativi sull’export e sulla crescita. L’entità di questo effetto dipende in parte dal comportamento delle valute asiatiche. Se queste continuassero a rimanere legate al dollaro, l’onere dell’aggiustamento cadrebbe in larga parte sull’Europa. Questo scenario potrebbe innescare forti pressioni protezionistiche, che potrebbero alimentare tensioni politiche e commerciali tra l’Europa e l’Asia.

Secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale gli effetti di uno scenario di aggiustamento disordinato potrebbero essere fortemente negativi per l’ economia globale.

L’aggiustamento concertato

Rimane lo scenario caratterizzato da un insieme di politiche economiche, possibilmente coordinate a livello internazionale, mirate a favorire l’aggiustamento degli squilibri, sia interni sia esterni, e a contenere eventuali ripercussioni negative sui mercati.

Negli Stati Uniti, la politica di bilancio dovrebbe favorire sia l’aumento del risparmio privato, attraverso misure di incentivazione, sia la riduzione dell’indebitamento pubblico. Questo sarebbe coerente anche con la necessità di assicurare condizioni di sostenibilità di medio periodo della finanza pubblica statunitense, data l’accelerazione della spesa sanitaria e del welfare prevista verso la fine di questo decennio.

In Asia, e soprattutto in Cina, la politica del cambio dovrebbe favorire una maggior flessibilità, così da consentire un apprezzamento in linea con le condizioni di mercato e il forte attivo della bilancia corrente. Questa politica sarebbe coerente con l’adozione di condizioni monetarie interne meglio tarate sulle esigenze dell’economia cinese. Consentirebbe inoltre di evitare la continua accumulazione di riserve valutarie. L’apprezzamento del cambio dovrebbe essere accompagnato con politiche di sostegno della domanda interna e con politiche sociali mirate a sostenere i consumi e a tutelare le parti più deboli della società, soprattutto nella fase di transizione e di ammodernamento. Si devono inoltre sviluppare i mercati finanziari, per consentire ai risparmiatori di investire in strumenti di mercato e ridurre il risparmio precauzionale.

In Europa, il contributo alla riduzione degli squilibri internazionali non passa attraverso un aumento o una riduzione del risparmio netto, dato che questo è in sostanziale pareggio. Lo squilibrio europeo è di natura interna. Rischia di aggravarsi, se si concretizzano gli scenari di aggiustamento che comportano un rallentamento dell’economia mondiale o una variazione disordinatra dei mercati. Per questo motivo, la priorità per l’Europa è di ridurre lo squilibrio interno, attraverso riforme strutturali che migliorino il funzionamento dei mercati e la crescita della produttività. Questo consentirà alle economie europee di meglio far fronte agli shock esterni.

Vi è un ampio riconoscimento, anche da parte delle autorità di politica economica, che le azioni appena descritte siano quelle da mettere in atto per contribuire a un aggiustamento graduale degli squilibri, interni ed esterni. Queste raccomandazioni vengono ripetute in ogni comunicato del G7 o di altri organismi internazionali. Vi è però un ritardo di attuazione. Qualche progresso è stato fatto, ma si è ancora lontani dall’obbiettivo.

Questo non è certamente un motivo per ridurre l’impegno. Anzi, è necessario rafforzarlo per favorire l’aggiustamento degli squilibri e consentire all’economia mondiale di crescere in modo sostenibile.

Politiche Globali

Le difficoltà di mettere in atto le azioni necessarie per favorire l’aggiustamento non nascono solo da problemi interni ma anche dalla complessità di gestire il coordinamento delle politiche economiche in un mondo sempre più globale. Questo incide non solo sull’efficacia della politica economica ma anche sull’accettazione del processo di globalizzazione da parte dei cittadini.

Secondo un sondaggio realizzato due anni fa, i cittadini europei sono in media favorevoli alla globalizzazione, ma ritengono che essa debba essere governata.[4] In effetti, ogni economia di mercato può funzionare solo sulla base di un sistema di regole, ad esempio in termini di diritti di proprietà, e non può prescindere da una qualche forma di "contratto sociale". La letteratura economica ha ampiamente mostrato che non esiste un’economia di mercato, né un sistema di allocazione di risorse efficiente, senza un sistema di regole.

La globalizzazione pone lo stesso tipo di problema a livello mondiale. Chi definisce le regole del gioco? Chi le fa rispettare?

Oggi la risposta è molto diversa da quella data 60 anni fa, dopo l’ultima guerra mondiale. Il motivo è proprio la globalizzazione, che rende ogni paese, inclusi gli Stati Uniti, relativamente più piccolo. Il ruolo delle istituzioni internazionali è cambiato perché non è più pensabile per nessuno imporre le proprie regole. Bisogna negoziarle con gli altri. Per aver peso nel negoziato è importante essere rappresentativi. Per questo motivo, la globalizzazione tende a far emergere un numero limitato di “giocatori” globali, di importanza sistemica, come gli Stati Uniti, la Cina, l’India, e a favorire raggruppamenti regionali, come l’Unione Europea. Le interazioni strategiche aumentano e diventano sempre più complesse, data la coesistenza della dimensione regionale (di cui l’Europa è un esempio importante) e di quella multilaterale nella gestione complessiva dell'economia mondiale.

Se l’organizzazione dell’economia internazionale si evolve verso un sistema oligopolistico, con un numero limitato di giocatori di grossa taglia, ne consegue, in prospettiva, che nessun paese europeo ha, da solo, una dimensione sufficiente per poter svolgere un ruolo di rilievo nel sistema multilaterale. Proiettando gli attuali tassi di crescita delle economie, emerge che nel giro dei prossimi 20 anni il peso relativo degli Stati Uniti e dell’Unione europea dovrebbe scendere dal 30 al 20 per cento circa, mentre quello della Cina supererebbe il 10, diventando il secondo paese per importanza mondiale. Il più grosso paese europeo, la Germania, non supererebbe il 3 per cento. Nel 2050, la Cina e l’India supererebbero l’Europa.

La dimensione europea diventa imprescindibile per la gestione dell’economia globale.

La questione che si pone è la seguente: data l’importanza di governare la globalizzazione, come si sta attrezzando l’Europa per svolgere tale ruolo nel sistema multilaterale?

La risposta è complessa perché la realtà europea è complessa e in parte contraddittoria.

Un elemento essenziale di qualsiasi politica globale è costituito dalla coerenza delle azioni svolte in ambiti diversi, da quello monetario e finanziario, a quello commerciale, di sviluppo, ecc. Ad esempio, gli squilibri internazionali dei pagamenti hanno risvolti non solo monetari, ma anche commerciali e finanziari. Il loro aggiustamento richiede azioni di politica valutaria, di bilancio, industriale, commerciale, antitrust. Il confronto e la cooperazione internazionale comportano impegni e azioni concertate su più tavoli. Le politiche economiche, anche quando attuate in modo indipendente, da autorità indipendenti, devono essere tra loro coerenti e complementari. Non possono essere gestite al meglio se si trascurano le sinergie.

Da questo punto di vista, il processo di integrazione europeo rimane in gran parte incompiuto e rischia di non essere pienamente adeguato per far fronte alle sfide della globalizzazione. L’influenza dell’Europa è frenata dalla frammentazione della sua azione di politica economica.

La rappresentanza e il grado di omogeneità del posizioni dell’Unione Europea variano in misura considerevole a seconda delle politiche e del consesso internazionale nelle quali queste vengono discusse.

Nel campo monetario e valutario, la Banca Centrale Europea e l’Eurogruppo (ministri finanziari dei 12 paesi che hanno adottato l’euro) hanno posizioni unitarie e le rappresentano in modo coeso nelle sedi rilevanti. Il successo dell’euro come moneta internazionale conferma questa unità di azione. La politica monetaria e valutaria impegna però solo 12 paesi su 25. In campo commerciale, vi è una sola politica e la Commissione Europea rappresenta tutti e 25 i paesi in seno all’Organizzazione Mondiale del Commercio. La diversa partecipazione alle politiche valutarie e commerciali rende difficile sfruttare le sinergie e la complementarietà di azione. Per questo motivo l’Europa a cerchi concentrici, con diversa partecipazione alle sue politiche, rischia di essere un’Europa monca, debole, che non può svolgere un ruolo forte nel sistema globale.

In molti contesti internazionali di rilievo come il G7, il G20, il Fondo Monetario Internazionale (ad eccezione delle questioni monetarie) e la Banca Mondiale, i paesi dell’Unione Europea procedono spesso in ordine sparso. Questo riduce l’influenza dell’Europa nel processo decisionale. Un esempio è la politica dello sviluppo, che è parte integrante della politica economica globale, soprattutto nei rapporti con i paesi emergenti. L’Europa ha in teoria una politica propria, in base alla quale eroga ingenti finanziamenti, in particolare attraverso la Commissione europea e la Banca Europea per gli Investimenti, a paesi in via di sviluppo ed emergenti. L’Europa nel suo insieme eroga circa il 50 per cento degli aiuti ai paesi in via di sviluppo. Tuttavia, nelle sedi internazionali, come le Nazioni Unite, la Banca Mondiale, le banche multilaterali di sviluppo o il Club di Parigi, dove vengono decise le politiche di sviluppo internazionali, i paesi europei continuano a partecipare per conto proprio, coordinando le loro azioni in modo ancora generico.

Lo stesso vale per il Fondo monetario internazionale, dove i paesi europei partecipano a ranghi sparsi. Sebbene la loro quota complessiva sia superiore al 30 per cento, hanno meno influenza degli Stati Uniti, la cui quota è di circa il 17 per cento. L’unico argomento che viene avanzato contro una più forte integrazione della rappresentanza esterna dell’Unione europea, o almeno dell’area dell’euro, è che non ci sono ancora le condizioni politiche. L’argomento è valido in quanto tautologico, al punto di sembrare ironico.

La mancata capacità politica dell’Europa di coagulare le sue forze rischia di innescare un vero e proprio processo di autoavvitamento.

Come ho ricordato prima, l’Europa - e in questo caso il concetto di Europa va inteso come i cittadini europei (Europa-cittadini) - non vede con sfavore la globalizzazione, ma vorrebbe che questa fase fosse governata per farne rispettare le regole. D’altro canto, l’Europa stessa – e in questo caso il concetto di Europa va inteso come Europa politico-istituzionale, cioè il Consiglio, la Commissione, il Parlamento Europeo (Europa-politica) - non riesce a darsi una struttura istituzionale che le consentirebbe di partecipare e di contribuire in modo efficace al governo della globalizzazione. In conseguenza, i cittadini europei non riescono a capire quale sia il valore aggiunto dell’Europa, e tendono a perdere fiducia nei suoi confronti.

Come ho già indicato, i singoli paesi europei, non hanno le dimensioni per concorrere appieno al governo dell’economia globale. La rinuncia all’Europa, o l’accettazione passiva delle difficoltà di progredire verso una maggiore integrazione europea si traducono così, di fatto, in una rinuncia a svolgere un ruolo nel governo della globalizzazione. Questo accresce nei cittadini i timori della globalizzazione stessa, stimola la ricerca di soluzioni alternative illusorie, che rischiano di allontanare ulteriormente l’Europa dalla competizione internazionale.

Si chiude così il cerchio vizioso in cui si sta arrovellando il nostro continente.

La via di uscita consiste nell’accettare le sfide e superare le paure che nascono dall’integrazione internazionale. Accettare le sfide della globalizzazione significa accettare quello che già hanno accettato i paesi e le aree dove maggiore è stato il progresso in questi anni, cioè una maggiore integrazione e mobilità internazionale dei beni, dei capitali, dei servizi e delle persone. Significa riformare il sistema economico, riducendo le barriere, i sussidi, le sovvenzioni, per migliorare il funzionamento dei mercati.

Per fare questo occorre un’Europa più forte internamente e a livello internazionale, che venga percepita dai cittadini come fattore di sviluppo e di coesione per affrontare le sfide quotidiane.

Grazie per la vostra attenzione.

  1. [1] Si veda Banca Mondiale (2001), Globalization, Growth and Poverty: Building an Inclusive World Economy.

  2. [2] Un’analisi di un economista del Fondo Monetario Internazionale mostra come protezionismo e sussidi nel settore agricolo si riflettono in una riduzione delle importazioni di prodotti agricoli da parte dei paesi industrializzati rispetto ai livelli che sarebbero teoricamente auspicabili. Molti paesi in via di sviluppo, tuttavia, sono anch’essi relativamente chiusi al commercio di prodotti agricoli. Si veda C. Paiva (2005): “Assessing protectionism and subsidies in agricolture: a gravity approach”, IMF Working Paper 05/21.

  3. [3] Si veda ad esempio G. Nicoletti e S. Scarpetta (2005): “Regulation and economic performance: product market reforms and productivity in the OECD”, OCSE. In questo articolo gli autori identificano un chiaro legame tra le riforme del mercato dei prodotti volte ad accrescere la competizione e la crescita della produttività del lavoro, che è un elemento essenziale della crescita del Prodotto nel lungo termine.

  4. [4] Secondo il sondaggio Flash Eurobarometer, Globalisation, EOS Gallup Europe (2004), il 62% dei cittadini europei (il 75% in Italia) ritengono che la globalizzazione vada regolata.

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