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Quale Europa dopo la crisi?

Discorso di Lorenzo Bini Smaghi, Membro del Comitato esecutivo della BCE,
all'inaugurazione dell’Anno Accademico 2011, IMT,
Lucca, 11 marzo 2011

Introduzione

Per capire come si svilupperà l’Europa dopo la crisi che la sta attraversando si può partire da due osservazioni. La prima è che la crisi ha colto l’Europa impreparata. La seconda è che l’Europa ha risposto alla crisi per certi versi in modo sorprendente.

La lezione da trarne è che l’Europa continua ad evolvere, a crescere, prosegue nel suo processo di integrazione. Ciò non avviene tuttavia secondo un disegno predefinito e concordato ma piuttosto in risposta alle sfide che le si pongono di fronte, e che in alcuni casi rischiano di mettere a repentaglio l’esistenza stessa dell’Unione. L’Europa avanza quando si trova di fronte al rischio di fare un passo indietro. A quel punto i costi dell’immobilismo superano quelli del movimento e riesce a trovare l’energia necessaria per superare le difficoltà politiche di fare un ulteriore passo avanti. Il passo avanti è difficile perché richiede una decisione di tutti i membri – attualmente 27 - che insieme devono riconoscere che i costi di perdere il bene comune è superiore ai benefici di mantenere le proprie prerogative nazionali, spesso più simboliche che di sostanza.

Il processo d’integrazione europeo è dunque in larga parte imprevedibile, perché dipende dalle sfide e dagli shock cui deve far fronte la società europea, e dalla sua capacità di comprendere che il passo avanti è più vantaggioso dell’immobilismo.

Tale imprevedibilità è la conseguenza logica del percorso originale che i paesi dell’Unione europea stanno seguendo, che non si ispira ad altre realtà politiche e istituzionali esistenti, come gli Stati Uniti, né cerca di applicare modelli costituzionali predefiniti. Segue piuttosto il principio di sussidiarietà, in base al quale vengono accentrati solo i poteri e le competenze che non possono essere più efficacemente svolti a livello locale. Questo principio non può essere applicato in modo teorico, a tavolino. È l’esperienza che consente di valutare come l’attuazione a livello nazionale di talune competenze può determinare un risultato inefficiente. Solo dopo il fallimento dell’approccio decentrato può emergere la consapevolezza che è necessario delegare ad un’istituzione europea poteri che in precedenza venivano esercitati principalmente a livello nazionale. Questo tipo di scelta non può peraltro essere dato per scontato perché nessuna istituzione, nazionale o internazionale, rinuncia facilmente alle proprie prerogative e le devolve ad un’altra.

Per fare un esempio, non è possibile stabilire a tavolino se l’area dell’euro sia un’area valutaria ottimale, secondo parametri oggettivi prestabiliti. Un’analisi approfondita stabilirebbe probabilmente il contrario. Ma l’esperienza ha dimostrato che sicuramente quella dell’euro non è un’area in cui è ottimale operare con 16 monete distinte, che fluttuano liberamente tra loro o che sono vincolate da meccanismi d’intervento. L’esperienza del Sistema monetario europeo e delle turbolenze valutarie degli anni Ottanta e Novanta è stata determinante per stabilire che il passaggio alla moneta unica era necessario, in particolare per evitare lo sgretolamento del mercato unico, un bene acquisito per tutti i paesi. L’operazione “a freddo”, tentata con il Piano Werner decenni prima, alla fine del sistema di Bretton Woods, non era riuscita e non poteva riuscire perché troppo teorica, troppo poco “politica”. Senza il crollo del sistema di Bretton Woods e senza il fallimento del Sistema monetario europeo oggi non avremmo l’euro. Non ce ne sarebbe stata la necessità.

Procedere sulla via dell’integrazione europea in questo modo empirico comporta due rischi. Il primo è che da un lato il fallimento del quadro istituzionale esistente deve essere sufficientemente evidente per convincere i paesi membri della necessità di fare un ulteriore passo avanti, ma d’altro canto non deve essere troppo devastante da mettere in discussione l’intero assetto comunitario. Il secondo rischio è che i paletti che vengono posti in occasione di ogni passo in avanti nel processo di integrazione, per definirne i confini, non devono essere irremovibili, al punto di rendere impraticabile il passo avanti successivo, che potrebbe rivelarsi necessario in futuro se il passo che viene compiuto si rivela insufficiente.

Vorrei sviluppare questo ragionamento in tre parti: prima ricordando come l’Europa si è comportata durante la crisi; successivamente, quali lezioni trarne per il processo d’integrazione; infine, allungare la vista al lungo periodo e alla direzione che deve prendere il processo d’integrazione economico e monetario.

L’Europa di fronte alla crisi

Vorrei cominciare dalla prima considerazione, ossia che la crisi ha colto l’Europa – che intendo qui come l’area dell’euro – impreparata. Il disegno istituzionale dell’euro non prendeva in considerazione la possibilità di una crisi come quella che stiamo attraversando. Per certi versi è comprensibile. Crisi del genere si verificano di rado. A dire il vero, la specificità che caratterizza l’area dell’euro, con una moneta unica ma senza un potere fiscale accentrato né un sistema di regolamentazione finanziario unico, era sfuggita a pochi. Si ritenne però, sin dall’inizio, che l’incompletezza potesse essere compensata con regole di comportamento e procedure disciplinari mirate a prevenire le crisi. Ci si aspettava – forse ingenuamente - che le regole sarebbero state rispettate.

D’altronde qual era l’alternativa? Quella di aspettare, come avevano suggerito alcuni, che si creassero le condizioni necessarie ad una più compiuta integrazione fiscale e politica prima di procedere all’integrazione monetaria? In quel modo si rischiava di ritardare l’integrazione monetaria e di veder ripetere quelle turbolenze che avrebbero rischiato l’implosione del sistema e del mercato unico. Si decise così di avviare l’Unione monetaria, anche senza prendere in considerazione la possibilità di gravi crisi finanziarie o di bilancio dei paesi membri.

Questo tipo di comportamento non è sorprendente. Caratterizza l’innovazione in generale, anche nel campo istituzionale. Le prime automobili non avevano sistemi di protezione avanzati come i paraurti rinforzati o gli air bag per garantire la sicurezza ai conducenti. Né si poteva aspettare di averli sviluppati e brevettati prima di mettere le prime auto in circolazione. Si confidava nella prudenza degli automobilisti, nella velocità contenuta delle prime auto e presumibilmente nella limitata circolazione per mantenere la probabilità di incidenti su livelli minimi. Dopo essersi accorti che la frequenza degli incidenti era ben maggiore del previsto, le case automobilistiche hanno deciso di sviluppare sistemi di protezione più sicuri e le autorità pubbliche di disciplinare l’emissione delle patenti di guida.

L’esperienza dei primi dieci anni di euro ha dimostrato che anche con regole di comportamento e meccanismi di coordinamento stringenti i paesi membri di un’unione monetaria possono trovarsi in una situazione di crisi finanziaria e di bilancio. I motivi sono diversi. Un primo è l’aggiramento delle regole, come nel caso della Grecia, che è riuscita a raddoppiare il disavanzo pubblico senza notificarlo per molti mesi. Il secondo motivo è l’accumulo di squilibri finanziari nel settore privato, che in caso di crisi può trasformarsi in debito pubblico. In queste condizioni un paese può perdere l’accesso ai mercati finanziari. Si verifica quello che viene descritto nella letteratura economica un “ sudden stop” – un arresto brusco – dell’afflusso di capitali. Questo fenomeno è tipico dei paesi in via di sviluppo, che si indebitano in valuta estera per favorire l’afflusso di capitali. Nei paesi avanzati questo tipo di problema è raro perché il debito è generalmente denominato in valuta nazionale, e in caso di necessità la banca centrale subentra e finanzia il tesoro, sostituendosi agli operatori privati. Il rischio di credito dell’emittente sovrano viene così evitato e trasformato in rischio di monetizzazione del debito pubblico e dunque di inflazione.

L’area dell’euro si trova in una situazione particolare anche per i paletti che vengono messi ogni volta che viene fatto un passo avanti nell’integrazione. Nel caso dell’unione monetaria il trattato comporta almeno due norme che non rendono possibile il passo successivo verso l’unione fiscale senza un’ulteriore modifica dei testi costitutivi. La prima è il divieto per la banca centrale di finanziare direttamente i bilanci dei paesi membri, poiché questo creerebbe l’incentivo per questi ultimi a fare deficit spending nell’aspettativa che ciò venga finanziato con la tassa comune dell’inflazione. L’altra norma del Trattato è la clausola cosiddetta di “ no-bail out”, che vieta ai paesi membri di accollarsi i debiti degli altri paesi, trasferendo risorse per rimborsarli. Queste due norme comportano, di fatto, la piena separazione tra il potere monetario, esercitato a livello dell’unione, e quello fiscale dei paesi membri. In altre parole, è come se per i paesi dell’area dell’euro il proprio debito pubblico fosse denominato in valuta estera, fuori dal controllo del paese stesso e senza possibilità di essere monetizzato.

Questi paletti sono stati messi nel Trattato proprio al fine di disciplinare i governi dei paesi membri ad evitare che si indebitassero in modo eccessivo con il rischio di perdere poi l’accesso al mercato finanziario. Riprendendo l’analogia precedente, si è deciso di creare un euro senza air-bag, senza rete di protezione, per far fronte a crisi della finanza pubblica o privata di un paese. Si riteneva che per evitare le crisi erano sufficienti meccanismi di disciplina delle politiche di bilancio dei paesi membri, sotto forma di un Patto di Stabilità e Crescita.

L’esperienza ha mostrato invece che anche con le migliori intenzioni, con politiche di prevenzione e severi controlli, gli incidenti automobilistici capitano e possono essere causati sia da comportamenti non adeguati, sia da fattori esterni. Senza sistemi di protezione adeguati, rischia di farsi male non solo chi guida in modo imprudente ma anche chi passa di lì per caso.

Lontano dall’Europa, la crisi è stata valutata da alcuni come una dimostrazione che l’esperimento dell’euro sia stato un fallimento. È stata prevista, alternativamente, l’implosione dell’euro, la spaccatura in più parti, l’uscita di alcuni paesi.

Evidentemente non sono state capite le motivazioni sottostanti alla creazione dell’euro. Per questo motivo, la reazione delle istituzioni europee ha destato sorpresa tra chi aveva prematuramente annunciato la morte dell’euro. D’altra parte, riprendendo l’analogia che ho sviluppato prima, rinunciare all’euro alla prima crisi sarebbe stato come decidere di tornare alla bicicletta dopo i primi incidenti automobilistici.

Contrariamente a quanto suggerivano quelli che forse avevano interesse che i paesi europei tornassero a pedalare, piuttosto che guidare automobili veloci, gli ingegneri europei si sono messi al lavoro per riparare la macchina e renderla più sicura, ma anche per fare in modo che i piloti siano più prudenti, pena multe salate.

In meno di dodici mesi la struttura istituzionale dell’euro è cambiata radicalmente. È interessante guardarsi indietro a guardare dov’era l’euro dodici mesi fa. In meno di un anno i paesi dell’area dell’euro hanno: approvato il pacchetto di salvataggio a favore della Grecia, per 110 miliardi di euro, a fronte di un drastico programma di aggiustamento fiscale e strutturale; approvato la creazione di un Fondo Europeo per la Stabilità Finanziaria dotato di 440 miliardi di euro; deciso di modificare il Trattato per creare un meccanismo permanente, ispirato al Fondo monetario internazionale. È stato modificato il Patto di Stabilità e Crescita per vincolare maggiormente le politiche di bilancio e rendere più automatiche le procedure sanzionatorie. È stata creata una procedura di sorveglianza macroeconomica per identificare e contrastare gli squilibri dei pagamenti e di competitività all’interno dell’area dell’euro. Vari paesi hanno adottato serie misure di aggiustamento fiscale e messo in atto riforme strutturali. Nel contempo, l’Unione europea si è dotata di tre nuove autorità di vigilanza dei mercati finanziari, dei sistemi bancari e delle assicurazioni e un Comitato Europeo per il Rischio Sistemico. Un altro aspetto importante, sul quale tornerò, è il rafforzamento del coordinamento tra i paesi dell’area dell’euro, ai più alti livelli di governo.

Un anno fa, chi poteva immaginare che sarebbero state prese tutte queste decisioni? Certo non quelli che prevedevano la disintegrazione dell’euro e che non hanno capito su quali basi era costruita l’unione monetaria. Fortunatamente molti di questi si sono ricreduti e non considerano più che sia l’euro ad essere in gioco, ma piuttosto la solvibilità di alcuni dei paesi membri.

A sorprendere non è stata solo la reazione di fronte alla crisi, ma anche le modalità e la tempistica con cui sono state prese le decisioni. Spesso in modo tardivo e sotto la pressione dei mercati.

Lezioni della crisi per l’integrazione europea

Senza ripercorrere tutte le tappe che hanno caratterizzato questi ultimi mesi, si possono sottolineare alcuni aspetti importanti che ci possono aiutare a capire come potrà evolvere in prospettiva l’Europa.

Il primo è la scoperta, da parte delle autorità politiche e dei cittadini dei paesi membri dell’euro, di quello che i padri fondatori come Kohl e Mitterand, ma anche la Thatcher, avevano intuito sin dall’inizio, ossia che l’unione monetaria è un’unione politica. C’è voluta una crisi per capirlo, ma solo la crisi ha fatto percepire che il fallimento dell’euro, la sua disintegrazione, avrebbe danneggiato tutti, paesi poveri e paesi ricchi, creditori e debitori. Condividere la stessa moneta significa legare inestricabilmente i destini economici dei paesi membri. Significa subire le conseguenze dei comportamenti altrui, anche quando sono indisciplinati. Non ci si può girare dall’altra parte, come si faceva quando le monete degli altri paesi venivano lasciate svalutare nel tentativo di recuperare competitività. Bisogna prevenire e riportare all’ordine le divergenze, altrimenti si è contagiati direttamente. Non si può neanche aspettare che qualcun altro, ad esempio i mercati finanziari, si occupi di disciplinare il proprio vicino, né si può minacciare di farlo fallire, perché si verrebbe immediatamente contagiati.

L’analogia del condominio che Carlo Azeglio Ciampi ha spesso applicato alla moneta europea non è mai stata così pregnante come in questi mesi. La consapevolezza che l’euro è un bene comune, da salvaguardare a tutti i costi, è stata più volte ribadita ed ha spinto a decisioni coraggiose.

D’altra parte l’opinione pubblica è stata mobilitata a favore dell’intervento comune solo quando ha percepito la possibilità di perdere i vantaggi che derivano dall’ acquis communautaire. Questo spiega perché in varie occasioni nel corso dell’ultimo anno è stato affermato da parte dei vertici politici dei vari paesi che l’euro era in pericolo. Ciò mirava a creare consenso a favore di misure che in tempi normali sarebbero state molto difficili da digerire. Questo modo di affrontare i problemi ha alimentato le tensioni sui mercati finanziari e alla fine ha richiesto interventi di dimensione ancor più ampia. Invece di un piano ampio e definitivo, che avrebbe risolto il problema alla radice, sono state messe in atto azioni che hanno tamponato le falle che si aprivano, una dopo l’altra, quando ciò si rendeva necessario.

Un secondo aspetto importante che ha caratterizzato l’azione di questi mesi riguarda la difficoltà di modificare l’assetto istituzionale europeo nella direzione di una maggiore integrazione. Come ho ricordato prima, l’unificazione monetaria è stata delineata in modo tale da non comportare il trasferimento di altre competenze a livello europeo. Tale trasferimento non è possibile senza avviare una macchinosa procedura di modifica dei trattati. Questo rende molto difficile compiere passi successivi. Questo è il motivo per cui il sostegno finanziario creato per aiutare i paesi in difficoltà (il Fondo di Stabilità Finanziario) è stato definito in modo tale da evitare che possa essere considerato come un meccanismo di trasferimento di bilancio. Potrà erogare finanziamenti solo a tassi penalizzanti e sotto condizioni di aggiustamento macroeconomico del paese debitore. In ultima istanza si è reso necessario modificare – anche se con un solo paragrafo – il trattato dell’unione.

Un terzo aspetto che ha caratterizzato le decisioni di questi mesi riguarda l’equilibrio tra la solidarietà a favore dei paesi in difficoltà e le pressioni da esercitare affinché questi ultimi adottino le misure necessarie per correggere gli squilibri in atto. Accettare di sostenere i paesi in difficoltà senza condizioni avrebbe alimentato l’azzardo morale. Inversamente, rifiutare di sostenerli rischia di precipitare l’area in una crisi finanziaria.

È un difficile equilibrio da mantenere, soprattutto quando le difficoltà economiche e politiche spingono a cercare capri espiatori, magari all’estero. È facile alimentare sentimenti nazionalisti nei paesi in difficoltà, spostando sulle istituzioni europee la responsabilità di aver provocato la crisi o di non aver fatto abbastanza per evitarla. Alla BCE, ad esempio, è stato rimproverato di aver accelerato la crisi irlandese, nel novembre 2010, dopo aver a lungo richiesto che il governo adotti rapidamente le misure necessarie per il risanamento di bilancio. Di recente, un ex primo ministro irlandese ha avuto addirittura l’onore delle prime pagine dei giornali quando ha rinfacciato alla BCE di non aver sufficientemente vigilato sul sistema bancario irlandese, quando è ben noto che in Europa i poteri di vigilanza prudenziale sono di competenza delle autorità nazionali, una competenza di cui non si vogliono privare.

Di fronte alla crisi le istituzioni europee si trovano spesso a svolgere il ruolo di capro espiatorio. La stampa nazionale dei vari paesi purtroppo tende ad assecondare i sentimenti anti-europei e talvolta cavalca lo scontro, senza cercare di approfondire i temi e cercare di presentare i punti di vista opposti.

Questa crisi ha mostrato la difficoltà di dialogo tra opinioni pubbliche di paesi diversi, le quali hanno evidentemente accesso alle notizie attraverso mezzi di comunicazione nazionali che non sempre cercano di presentare il punto di vista dell’altra parte, tanto meno quello delle istituzioni europee. Un tale meccanismo tende ad alimentare posizioni estreme e contrapposte tra paesi. Ostacola la ricerca di soluzioni che privilegiano l’interesse comune. A mio avviso si dovrebbe riflettere maggiormente su questo problema.

Un quarto aspetto di questa crisi è stata la tendenza ad affrontare e a risolvere i problemi principalmente attraverso un approccio intergovernativo, piuttosto che comunitario. Ciò rappresenta evidentemente un problema quando l’interesse comune dell’area non corrisponde necessariamente alla somma degli interessi nazionali. È uno dei motivi per cui le decisioni del Consiglio sono spesso state prese all’ultimo momento, sotto la pressione dei mercati, quando il pericolo dell’immobilismo è apparso a tutti.

Uno dei motivi è che la dimensione politica dell’unione monetaria non corrisponde alla struttura delle istituzioni europee, che è a 27 e comprende paesi che non condividono la concezione di destino comune legata all’euro. La Commissione europea, che si considera istituzione politica e non tecnica, ha difficoltà ad avanzare proposte che riguardano esclusivamente il processo di integrazione monetario. Spesso tende ad agire come mediatore, replicando le funzioni del Consiglio. Il Consiglio, a sua volta, non esiste nella composizione ristretta all’area dell’euro, eccetto l’Eurogruppo che comprende i ministri delle finanze. Il meccanismo delle cooperazioni rafforzate previste nel trattato di Lisbona è troppo macchinoso. Il Parlamento europeo appare l’unica istituzione politica intenzionata a privilegiare l’approccio comunitario, ma non ha sufficienti poteri per imporsi. Ha svolto un ruolo limitato nella gestione della crisi.

La BCE è l’istituzione monetaria dei 17 membri dell’unione che ha la capacità di decidere rapidamente sulla base di un obiettivo comune. Ha dovuto, nei momenti più difficili, chiedere ai governi e ai parlamenti dei paesi membri di prendere decisioni commisurate alle sfide e agli obiettivi che essi stessi si erano dati e all’impegno preso di fare tutto il necessario per difendere la moneta unica. Le istituzioni politiche nazionali non hanno tuttavia ancora incorporato nei loro processi decisionali il fatto che condividono la stessa moneta, il che richiede responsabilità nuove e congiunte. C’è un’insufficiente capacità di “pensare europeo”, ossia di incanalare i processi decisionali nazionali in un quadro più ampio, legato in particolare alla moneta unica. Per questo motivo è necessario rafforzare la capacità decisionale dell’Eurogruppo ed estenderlo ad altri forum di discussione, in particolare ai capi di stato e di governo dell’area dell’euro ed eventualmente anche ai ministri del lavoro e alle altre competenze ministeriali che incidono ad esempio sulla competitività dell’economia europea.

Non si deve comunque ignorare che sono stati ottenuti risultati importanti. Come ho ricordato prima, la faccia dell’euro è molto diversa oggi rispetto ad un anno fa. L’innovazione istituzionale è inevitabilmente incrementale, come quella ingegneristica. Essa viene stimolata anche dagli incidenti di percorso, se se ne sanno trarre i giusti insegnamenti. Questo metodo di lavoro rende tuttavia difficile disegnare un quadro definitivo dell’assetto istituzionale europeo, capace di dare stabilità definitiva al sistema.

In questo mese ci si aspettano decisioni importanti. Vi è il rischio che, come in passato, si cerchi di minimizzare i costi politici interni. L’approccio parcellizzato seguito negli ultimi mesi può essere più facile da far digerire all’opinione pubblica interna. Ma l’insufficienza delle singole misure rispetto alla dimensione complessiva del problema e alle aspettative dei mercati rischia di protrarre ulteriormente l’incertezza, come è avvenuto nei mesi passati. Ciò può alla lunga aumentare il costo politico dell’inazione. È preferibile a un certo punto prendere misure definitive, che calmino i mercati e li convincano che i paesi dell’euro sono effettivamente intenzionati a fare tutto quello che è necessario per salvaguardare la stabilità finanziaria dell’area, come da mesi affermano i loro governi.

Uno dei problemi che questa crisi ha mostrato è la difficoltà delle autorità politiche e dei mercati di capirsi a vicenda. Da un lato i mercati non capiscono perché i governi dei paesi europei tardano ad adottare le misure necessarie a risolvere i problemi e rimandano le decisioni nel tempo, creando incertezza sulla loro effettiva volontà. Dall’altro lato le autorità politiche spesso non capiscono come funzionano i mercati finanziari; li disprezzano profondamente ma al contempo ne dipendono per il finanziamento dei loro bilanci. Non capiscono che gli annunci e le buone intenzioni valgono solo in tempi normali, ma quando la crisi si sviluppa il rischio di perdere credibilità si argina solo con azioni efficaci e tempestive. Non capiscono che gli operatori di mercato sono alla ricerca di opportunità di profitto, e quando glie ne viene offerta una si gettano verso quella successiva, nell’aspettativa di fare un simile guadagno. Questo fenomeno è all’origine del contagio. Minacciare i mercati di ritorsioni e di misure coercitive spesso scoraggia gli investitori più stabili, di lungo periodo, mentre premia gli speculatori che hanno un orizzonte breve.

Il lungo periodo

L’approccio parcellizzato seguito in questi mesi comporta il rischio di perdere di vista l’obiettivo di lungo periodo. Le misure possono non essere pienamente coerenti tra di loro. Ci siamo andati vicini nell’autunno scorso, con la proposta franco-tedesca, fatta propria dagli altri paesi, di rendere più facile il fallimento dei paesi. Fortunatamente l’idea non è passata, non solo per l’avversione della BCE ma anche per l’effetto devastante che ha avuto sui mercati finanziari. Ci vorrà tempo per recuperare la perdita di credibilità subita da parte dell’Europa con quella proposta.

La proposta si basava sull’ipotesi secondo cui il modo migliore per disciplinare i governi e per assicurare finanze pubbliche più sane è di rendere più facile per un paese dichiarare fallimento. Appena un paese si trova in difficoltà di finanza pubblica, dovrebbe chiedere una ristrutturazione dei propri debiti o allungare automaticamente le scadenze dei propri titoli di stato come condizione necessaria per ricevere l’aiuto da parte delle istituzioni internazionali ed europee.

Questa idea è sbagliata per vari motivi. Il primo è che attribuisce il compito principale di disciplinare i governi ai mercati finanziari. I mercati - secondo la tesi dei proponenti – funzionano meglio se sono più esplicite le condizioni secondo cui uno stato può fallire. Questa ipotesi – cara a molti accademici - non corrisponde però alla realtà. Nel settore privato i fallimenti sono possibili e regolamentati, eppure i mercati spesso sbagliano nel valutare il rischio dei titoli emessi dal settore privato. I mercati si sono sbagliati prima e dopo la crisi e continueranno a sbagliarsi, anche per quel che riguarda il rischio sovrano. Inoltre, essi si comportano spesso in modo non efficiente e favoriscono comportamenti collusivi, soprattutto quando è possibile acquistare titoli derivati che consentono di “scommettere” sul fallimento di un paese, anche senza avervi investito. Dare ai mercati l’esclusivo potere di decidere del destino di milioni di cittadini mi sembra alquanto irresponsabile. La recente decisione europea di limitare la possibilità di comprare derivati di copertura di rischio sovrano senza il titolo sottostante appare dunque giustificata.

È proprio perché questo approccio è sbagliato che è stato creato, oltre sessanta anni fa, il Fondo monetario internazionale, che interviene per evitare che i mercati abbiano il potere esclusivo di decretare il fallimento dei paesi, in particolare quando questi ultimi sono intenzionati a risanare le proprie finanze pubbliche. Non si capisce perché l’Europa debba essere più masochista degli altri e privarsi di strumenti che altri hanno.

Un altro motivo è che la valutazione della solvibilità di un paese non è semplice come quello di un’azienda privata. Dipende dalla capacità e dalla volontà delle autorità del paese di tassare e spendere. Non è detto che i mercati finanziari abbiano una miglior capacità di valutare tale volontà e capacità. L’esperienza dimostra il contrario, dato che la grande maggioranza dei paesi che ha fatto ricorso al Fmi negli ultimi venti anni ha poi rimborsato i suoi creditori. Peraltro, il default di un paese produce degli effetti di contagio sugli altri. In tali condizioni non è poi sempre facile far fallire un paese, se a pagarne i costi è anche il resto dell’area.

È necessario ripartire dall’obiettivo, che è quello di costruire un euro più robusto, che si basi su un’economia più competitiva a livello globale e con finanze pubbliche solide, per riflettere sulle possibili soluzioni di lungo periodo. Vorrei in proposito sottoporre le mie riflessioni, a titolo personale.

Per rafforzare le fondamenta della moneta unica è necessario incentivare comportamenti virtuosi sia del settore pubblico sia di quello privato, che sono largamente di competenza dei paesi membri. Ciò può essere ottenuto attraverso processi di monitoraggio, pressione tra i pari come nel caso dell’agenda di Lisbona, vincoli e regole automatiche o semi-automatiche. Le iniziative in tal senso sono da incoraggiare, tenendo comunque conto che maggiore è l’automaticità delle regole, maggiore è la devoluzione di sovranità.

Questa crisi ha tuttavia mostrato che le procedure e i vincoli posti ai comportamenti pubblici o privati non sempre sono efficaci. Non si può escludere una crisi immobiliare in un paese, l’eccessivo indebitamento privato in un altro, un rallentamento ciclico o tendenziale in un altro ancora, una perdita graduale di competitività. Bisogna evitare lo stesso errore di quello commesso in questi anni, di ipotizzare che le crisi non avvengano.

Gli interventi devono dunque seguire almeno due linee. La prima è quella di minimizzare i rischi di crisi. La seconda è quella di minimizzare l’impatto della crisi, in particolare l’effetto di contagio sugli altri paesi.

La prima linea d’intervento è quella sulla quale si sta attualmente lavorando con maggiore intensità e dunque non mi dilungherò. Si tratta di rafforzare la disciplina e i vincoli sulle politiche fiscali e sui comportamenti degli operatori privati. È ovviamente più facile agire sui primi che sui secondi. Le proposte sul tavolo mirano a rafforzare i vincoli e le procedure esistenti attraverso meccanismi di monitoraggio e di sanzioni più o meno automatici.

Se l’obiettivo è di assicurare una finanza pubblica sana e solida nell’area dell’euro, esso non può essere raggiunto solo attraverso procedure di monitoraggio e con la pressione dei mercati finanziari. A mio avviso, bisogna rovesciare il problema. Bisogna chiedersi cosa sia necessario per impedire ai paesi di entrare in crisi di solvibilità. In altre parole, se l’obiettivo è di avere finanze pubbliche sane non dovrebbe essere consentito ad un paese di essere insolvente. Dovrebbe essere vietato ai paesi membri dell’unione monetaria la possibilità di fallire, ossia di fare default o di ristrutturare il loro debito.

Il modo migliore per evitare i default da parte dei paesi dell’euro è di stabilire regole per l’indebitamento, che abbiano valore costituzionale. Queste regole possono avere carattere comunitario od essere inserite nelle costituzioni nazionali, come è già il caso in alcuni paesi. Come assicurarsi però che tali regole vengano rispettate? Come assicurarsi che gli inevitabili margini di discrezione non vengano aggirati?

Un modo di assicurare che la disciplina sia effettivamente vincolante consiste nel devolvere ad un’entità sopranazionale dell’area dell’euro il potere di emettere i titoli di stato per i paesi membri. I paesi non avrebbero di fatto più la capacità, tecnica o politica, di emettere debito pubblico sul mercato. Questo potrebbe essere un primo passo verso un titolo pubblico europeo unico, che verrebbe emesso dall’agenzia sopranazionale per finanziare bilanci pubblici di tutti i paesi, o di quelli che hanno caratteristiche simili come il livello massimo di rating. Tale evoluzione non richiederebbe necessariamente un’integrazione delle politiche di bilancio, e dunque un sistema fiscale integrato. Quello che viene messo in comune è solo il rubinetto, ossia il sistema integrato di emissione dei titoli da emettere sul mercato i cui proventi vengono poi allocati ai singoli paesi, secondo meccanismi decisionali comuni. Il Consiglio dei ministri europeo, secondo una procedura decisionale da specificare, dovrebbe decidere quanto debito può essere emesso dall’agenzia comune nel suo complesso e come distribuirlo a favore dei singoli stati. Di fatto, attraverso il controllo sul volume delle emissioni, il Consiglio avrebbe il potere di decidere il saldo del bilancio dei singoli paesi. Potrebbe sembrare a prima vista un passo avanti prematuro nell’integrazione politica dell’area dell’euro. In realtà le procedure attuali già prevedono che il Consiglio approvi i bilanci dei singoli paesi, nell’ambito dei programmi di stabilità presentati ogni anno dai paesi stessi. Questo parere non è tuttavia vincolante mentre nel caso proposto lo diventerebbe di fatto, attraverso la decisione di emettere o meno titoli di debito. Un aspetto chiave riguarda il meccanismo decisionale con il quale il Consiglio approverebbe il volume complessivo e quello dei singoli stati. È necessario infatti salvaguardare la disciplina complessiva del sistema ed evitare una rincorsa per finanziare disavanzi pubblici più ampi. D’altra parte, i paesi dovrebbero avere un incentivo forte a limitare l’indebitamento degli altri per evitare di venirne contaminati.

Mi fermo qui con la proposta che – lo riconosco - é al limite della provocazione. Sicuramente c’è bisogno di maggior riflessione. Ma l’obiettivo deve essere quello di rendere le crisi finanziarie meno probabili.

La seconda linea d’intervento riguarda come ridurre l’impatto di una crisi di un paese sul resto dell’unione monetaria. Le crisi in effetti non si possono escludere, in particolare per quel che riguarda il settore privato, e nemmeno fasi di bassa crescita o di declino relativo di un paese rispetto al resto dell’area. Quello che importa è evitare che i problemi di un paese si trasformino in problemi anche per gli altri.

Il contagio delle crisi passa principalmente attraverso il sistema finanziario, in particolare quello bancario. Il sistema finanziario europeo è sufficientemente integrato da trasmettere gli impulsi connessi ad una crisi locale, ma non sufficientemente diversificato da consentire di attutirlo. Inoltre, data la struttura decentrata dei sistemi di regolamentazione e di vigilanza, l’impatto di una crisi bancaria viene assorbito in ultima istanza dai bilanci pubblici nazionali. La crisi irlandese mostra la pericolosità dell’intreccio tra la fragilità del sistema bancario nazionale e la fragilità delle finanze pubbliche del paese.

Per ridurre la dipendenza dell’area dell’euro nel suo insieme da eventi locali è necessario rompere il legame tra la finanza pubblica e sistema bancario dello stesso paese. Questo legame nasce dal presupposto – errato come vedremo – che la regolamentazione e la vigilanza prudenziale devono essere svolte a livello nazionale perché in ultima istanza sono i contribuenti del paese a dover supportare i costi di eventuali fallimenti bancari.

La crisi ha mostrato che questo presupposto non è vero. Gli errori e le negligenze commessi dalla regolamentazione e dalla vigilanza irlandese vengono pagati non solo dai contribuenti di quel paese ma espongono anche quelli degli altri a rischi enormi. L’intero sistema bancario europeo è influenzato da quanto avviene in quel paese. Ad esempio, il modo poco limpido in cui sono stati effettuati nella primavera scorsa gli stress test bancari in Irlanda ha contaminato la credibilità degli stress test in tutti i paesi. In un mercato veramente integrato la vigilanza non può rimanere decentrata perché le decisioni che prende non hanno effetto solo sui contribuenti nazionali.

L’attuale sistema decentrato non penalizza sufficientemente il free riding, cioè l’incentivo ad attrarre nel proprio paese una parte del settore abbassando il livello della regolamentazione. In realtà anche i contribuenti traggono beneficio da tale incentivo, perché lo sviluppo del settore finanziario, favorito dalla de-regolamentazione, contribuisce ad aumentare le entrate fiscali che finanziano la spesa pubblica. Solo in fasi critiche, quando il sistema finanziario nazionale è in difficoltà, il contribuente si trova a dover compensare le mancate entrate fiscali di quel settore e deve in alcuni casi chiedere aiuto ai contribuenti degli altri paesi.

Vi è dunque l’esigenza, almeno all’interno dell’area dell’euro, a ridurre l’incentivo che hanno le autorità di vigilanza nazionali a trattare il sistema del loro paese in modo preferenziale rispetto a quello che viene fatto nel resto dell’Unione. La creazione delle tre autorità europee, nel settore bancario, dei mercati e delle assicurazioni, è un passo avanti nell’attuazione di un sistema di regolamentazione più omogeneo. Bisognerà verificare in che modo queste autorità riusciranno a raggiungere un sistema sufficientemente armonizzato. La conduzione dei prossimi stress test è un banco di prova. È necessario mettere in atto un meccanismo di monitoraggio delle autorità di vigilanza nazionali, per verificare il modo in cui svolgono le loro attività, inclusi gli stress test. È sorprendente che i bilanci pubblici dei paesi membri siano soggetti a valutazioni, ad esempio da parte della Commissione europea, mentre l’attività di vigilanza bancaria non è sottoposta a controlli sopranazionali.

Il sistema di decisione attuale, che si basa sul consenso, tende a favorire le posizioni di chi scoraggia la trasparenza, la robustezza dei test, la circolazione delle informazioni. Se i risultati dei prossimi stress test non riusciranno a convincere i mercati che sono stati fatti in modo rigoroso, nessuna autorità nazionale potrà nascondersi dietro l’altra e tutte perderebbero credibilità, inclusa l’appena creata Autorità Bancaria Europea. Si creerebbero inevitabilmente le condizioni per un successivo passo istituzionale, mirante a trasferire ulteriore sovranità in materia di vigilanza a livello europeo.

In prospettiva, si devono - a mio avviso - creare le basi per un meccanismo più integrato di prevenzione e di risoluzione delle crisi bancarie, finanziato a livello europeo. Lasciare la risoluzione delle crisi alla cooperazione volontaria non è sufficiente per evitare il contagio tra sistemi bancari e tra questi e il debito pubblico dei paesi membri. La messa in comune dei costi derivanti da eventuali errori di valutazione delle autorità di vigilanza comporterebbe una presa di responsabilità congiunta di queste autorità. Se si vuole evitare il ripetersi di una crisi come quella irlandese, è necessario prevedere un sistema di vigilanza europeo integrato entro il quale limitare i margini di discrezionalità delle autorità nazionali e sottoporre queste ultime a uno stretto monitoraggio. Le conseguenze di un sistema bancario e finanziario sovradimensionato e altamente indebitato non vengono infatti subite solo dai cittadini e contribuenti di quel paese ma da tutti quelli dell’area.

Uno dei problemi pratici nel seguire questa strada è che la regolamentazione bancaria è un tema che riguarda l’intero mercato interno, cui partecipano i 27 paesi dell’Unione, e non solo quelli dell’area dell’euro. L’opposizione a un tale processo di integrazione nel campo bancario viene soprattutto dai paesi che non fanno parte dell’euro. Ci vuole dunque la capacità e la forza dei paesi dell’euro a dotarsi di maggiori poteri per quel che riguarda la loro area, che come ho affermato prima comporta un grado di integrazione politica ben maggiore.

Conclusioni

La faccia dell’euro è cambiata in questi dodici mesi. Sono state prese decisioni importanti. L’area dispone di un sistema di checks e balances che altri non hanno. Mi domando a volte cosa sarebbe successo se tutti i componenti del Consiglio europeo la pensassero sempre allo stesso modo. Potrebbe sembrare un mondo ideale, in cui le decisioni sarebbero prese rapidamente. Ma in che direzione? Se tutti la pensassero come i più rigidi ed intransigenti avremmo forse rischiato una crisi ancor più forte, innescata magari dal fallimento di qualche paese, come avvenuto dopo quello di Lehman Brothers. Se tutti la pensassero invece come i più flessibili e lassisti, rischieremmo di erogare aiuti incondizionati e incoraggiare così l’indisciplina dei bilanci pubblici. La contrapposizione tra varie istituzioni - Consiglio, Commissione, Parlamento e Banca centrale – e la dialettica al loro interno tra i vari membri, consente di prendere in considerazione vari punti di vista, in particolare quelli dei creditori e dei debitori, di incorporare l’approccio comunitario e quello intergovernativo, di combinare regole e discrezionalità.

Durante questi mesi le decisioni sono state prese con ritardo e spesso sotto la pressione dei mercati. Si è rischiato l’immobilismo e la vista è rimasta corta. Questi rischi rimangono.

Sono tuttavia convinto che proprio nei momenti di crisi l’Europa abbia qualcosa in più, che la fa andare avanti nella direzione giusta. La combinazione di radici storiche comuni e di diversità culturali dei paesi che la compongono, la miscela di cooperazione e di concorrenza tra di essi, sono stati e continueranno ad essere fonte di sviluppo e di ricchezza. E spero di saggezza.

Grazie per l’attenzione.

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