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Economia europea e politica monetaria

Lorenzo Bini Smaghi, Membro del Comitato esecutivo della BCE
Intervento al seminario SACE “Competizione globale: opportunità e sfide per l’Italia”
Milano, 9 novembre 2006

L’economia europea è in ripresa, a un ritmo superiore del previsto.

Tra il terzo trimestre del 2005 e il secondo trimestre del 2006, il Prodotto lordo dell’area dell’euro è cresciuto del 2,7 per cento in termini reali, il ritmo più elevato dal 2000.

Alla fine dello scorso anno, le principali istituzioni internazionali prevedevano un tasso di crescita intorno al 2 per cento per il 2006. Queste previsioni sono state più volte riviste al rialzo negli ultimi mesi.

La Banca centrale europea pubblicherà le sue previsioni aggiornate il 7 dicembre prossimo. Secondo le previsioni della Commissione europea, che sono state rese pubbliche lunedì scorso, la crescita del Pil dell’area dell’euro dovrebbe essere del 2,6 per cento (il 2,8 per l’intera Unione di 25 paesi).

La crescita in corso è diffusa, per paesi e per comparti.

Sia le esportazioni che gli investimenti e, di recente, i consumi privati hanno fornito un contributo positivo e rilevante alla crescita, indicando la sostenibilità dell’attuale fase ciclica.

Un aspetto importante è la ripresa dei consumi privati, che negli ultimi anni era stata contenuta, per effetto della crescita moderata del reddito disponibile e dell’occupazione. Secondo le previsioni della Commissione europea, i consumi dovrebbero crescere quest’anno del 2 per cento. Queste previsioni sembrano essere confermate dal clima di fiducia dei consumatori, in netto miglioramento nel corso dell’ultimo anno.

La questione principale che ci si deve porre è se l’attuale ripresa sia di natura prevalentemente congiunturale, e dunque destinata ad esaurirsi come è stato il caso delle precedenti fasi, oppure se si siano create le condizioni in Europa per una crescita più duratura e sostenuta nel tempo, possibilmente analoga a quella che si è verificata nella seconda metà degli anni 1990 negli Stati Uniti. Un corollario a questa domanda è se la crescita in atto sia sufficientemente robusta da consentire all’economia europea di far fronte agli shock che potranno verificarsi nei prossimi mesi.

La risposta dipende sia da fattori interni, sia da fattori esterni all’Europa.

Per quel che riguarda i fattori interni, se ne possono individuare due: la flessibilità dei mercati e le condizioni della finanza pubblica.

Esaminando la precedente fase di ripresa ciclica dell’area dell’euro, nel 1999-2000, e confrontandola con quella di altri paesi – in particolare gli Stati Uniti – si nota che l’esaurimento della crescita è derivato in gran parte dall’incapacità dell’offerta di beni e servizi di adeguarsi alla forte dinamica della domanda interna senza che questo creasse pressioni sui prezzi. L’impostazione espansiva, invece che restrittiva, della politica fiscale, accentuava ulteriormente questo squilibrio.

Nell’attuale fase di ripresa sono emersi alcuni fattori che possono invece contribuire a rendere la ripresa più duratura.

Le riforme attuate in molti paesi sul mercato del lavoro hanno consentito di aumentare notevolmente il livello di occupazione nell’area dell’euro. Negli ultimi 5 anni sono stati creati oltre 7 milioni di posti di lavoro nell’area dell’euro, nonostante il basso tasso di crescita dell’economia. Il tasso di disoccupazione è sceso al 7,8 per cento, il livello minimo raggiunto al picco della precedente fase ciclica. Secondo le previsioni della Commissione, il tasso di disoccupazione dovrebbe diminuire ulteriormente nei prossimi anni.

Il tasso di occupazione è continuato ad aumentare, anche se a un ritmo inferiore all’obbiettivo posto nel programma di Lisbona.

Un altro aspetto importante è stata la moderazione salariale messa in atto nella gran parte dei paesi europei, che ha consentito di mantenere bassa la dinamica del costo del lavoro per unità di prodotto, soprattutto negli ultimi tre anni. Ciò ha permesso di difendere i livelli di competitività e di assorbire gli shock esterni, derivanti in particolare dall’aumento del prezzo del petrolio, senza creare pressioni inflazionistiche.

Va notato tuttavia che non tutti i paesi hanno registrato comportamenti così virtuosi. Nei paesi dove i salari sono cresciuti più velocemente della produttività, si sono registrate perdite di competitività che si sono tradotte in un calo delle quote di mercato e in minor crescita della produzione.

In questi paesi, recuperare competitività nei prossimi anni sarà compito arduo, che richiede un impegno congiunto delle parti sociali senza gravare sulle finanze pubbliche.

Complessivamente nell’area dell’euro i mercati del lavoro hanno mostrato segni di maggior capacità di adattamento rispetto al passato. Questo mostra che le riforme, quando vengono messe in atto, richiedono tempo per espletare i loro effetti, ma che questi effetti sono benefici per l’occupazione e la crescita.

Se i mercati del lavoro continueranno a mostrare capacità di adattamento e moderazione salariale, la ripresa in atto della domanda interna potrà favorire un ulteriore aumento dell’occupazione, e dunque del potere d’acquisto, senza tensioni inflazionistiche, alimentando così ulteriore domanda e generando un circolo virtuoso di crescita, che è mancato in passato all’Europa.

Un discorso analogo può essere fatto per quel che riguarda il mercato dei prodotti. La mancanza di concorrenza, le rigidità dell’offerta, il ritardo nell’adottare nuove tecnologie e innovazione, hanno in passato limitato le prospettive di crescita.

Anche in questo caso, l’esperienza recente mostra che sono stati fatti dei progressi, anche sotto la spinta della globalizzazione, che ha aumentato il grado di concorrenza e limitato la possibilità per le imprese di aumentare i prezzi al dettaglio. Molto rimane ancora da fare per consentire alle economie dei paesi europei di accrescere il grado di concorrenza e aumentare così il ritmo di crescita senza che questo si scontri con rigidità di offerta.

Uno dei problemi principali dell’economia europea, che rischia di far esaurire troppo rapidamente la crescita, è il basso tasso di crescita della produttività. Negli Stati Uniti, la produttività totale dei fattori è aumentata a un ritmo vicino al 2 per cento negli ultimi dieci anni, circa il doppio dell’area dell'euro. I motivi per tale divario sono ben noti: in particolare, un minor tasso di ricerca e sviluppo in Europa, in particolare nel settore delle tecnologie dell’informazione, e una minore flessibilità del sistema produttivo nell’adattarsi ai cambiamenti tecnologici.

L’altro fattore che potrebbe frenare la crescita europea, come è avvenuto nella precedente fase ciclica è la finanza pubblica. Nel 1999-2000 i bilanci pubblici dell’area dell’euro sono peggiorati, in termini strutturali - cioè corretti per l’effetto del ciclo - di circa mezzo punto di Pil. Questo ha creato pressioni sulla domanda interna, alimentando l’inflazione e al contempo riducendo lo spazio di manovra al fine di usare gli stabilizzatori di bilancio nella fase successiva di rallentamento ciclico. Le protratte difficoltà di bilancio hanno creato incertezza sulle prospettive del potere d’acquisto e pesato in modo negativo sulla fiducia delle famiglie e degli investitori.

Guardando ai dati di finanza pubblica dei maggiori paesi europei si nota nell’anno in corso un miglioramento apparente. Tuttavia, depurando i dati di finanza pubblica dalla componente ciclica, i saldi strutturali di bilancio registrano miglioramenti modesti. Per l’insieme dell’area dell’euro non c’è in pratica alcun miglioramento nel 2006, proprio nell’anno di maggior crescita. Il miglioramento nel 2007 è fortemente condizionato alla piena attuazione dei programmi di risanamento.

Dal lato esterno, la crescita dell’economia mondiale dovrebbe rimanere sostenuta, a un ritmo non lontano dal 5 per cento secondo la maggior parte delle previsioni disponibili. Il relativo rallentamento negli Stati Uniti dovrebbe essere più che compensato dalla crescita in Asia. Per l’area dell’euro, il continente asiatico è oramai un’area di sbocco più importante degli Stati Uniti: le esportazioni verso gli Stati Uniti rappresentano il 15 per cento circa del totale delle esportazioni dell’area dell’euro, mentre l’intera Asia rappresenta il 20 per cento, e gli altri paesi dell’Unione Europea il 30 per cento. Per quanto riguarda l’Italia, il peso degli Stati Uniti è ancora inferiore, circa il 9 per cento, mentre il peso del resto dell’Europa è ben il 60 per cento.

L’interscambio con l’estero dovrebbe continuare a contribuire alla crescita economica nell’area. Secondo le stime della Commissione, le esportazioni dell’area dell’euro dovrebbero crescere di circa l’8 per cento quest’anno e del 6 per cento nel 2007, un ritmo superiore a quello delle importazioni. Le esportazioni italiane dovrebbero crescere del 6 per cento quest’anno e del 4 per cento l’anno prossimo.

In questo scenario di medio periodo si innescano vari fattori di rischio.

Il primo riguarda un eventuale rallentamento superiore al previsto negli Stati Uniti. Al momento questa prospettiva appare remota e l’economia americana sta mostrando capacità di mettere in atto un “atterraggio morbido” (soft landing). Guardando attentamente ai dati recenti, escludendo il settore delle costruzioni, l’economia statunitense sembra continuare a crescere a un ritmo sostenuto.

L’impatto di un eventuale rallentamento superiore al previsto è difficile da valutare. I canali puramente commerciali suggeriscono una elasticità alquanto limitata tra variazioni del Pil statunitense e europeo. I canali di trasmissione del ciclo internazionale sono però più complessi e possono addirittura essersi modificati nel tempo.

Un canale di trasmissione difficile da valutare è quello finanziario. Da un lato, un andamento negativo dei mercati borsistici statunitensi, che potrebbe verificarsi nel caso di un rallentamento superiore al previsto, avrebbe effetti negativi sui mercati europei, scoraggiando la propensione all’investimento sui mercati globali. D’altro canto, il calo dei tassi d’interesse a lungo termine che ne seguirebbe produrrebbe un effetto di stimolo, anche in Europa, che potrebbe in parte compensare l’effetto precedente.

Inoltre, un rallentamento maggiore dell’economia statunitense potrebbe avere effetti negativi sulle quotazioni petrolifere, producendo un miglioramento delle ragioni di scambio e del potere d’acquisto dei consumatori europei. Questo contribuirebbe a sostenere la domanda interna, compensando in parte il calo della domanda proveniente dagli Stati Uniti.

Rimanendo sulle problematiche del mercato petrolifero, la recente variabilità dei prezzi mostra la difficoltà di prevedere le quotazioni. Il recente calo è in parte dovuto all’esaurimento di certe posizioni speculative e all’attenuazione delle tensioni geo-politiche. Questi fattori possono tuttavia essere temporanei e non si può escludere un loro riacutizzarsi, con effetti inflazionistici sui corsi delle materie prime. Questo rimane uno dei rischi principali nel breve-medio termine.

Tra gli altri fattori di incertezza c’è anche la reazione dei consumatori e delle imprese agli inasprimenti fiscali, in particolare in Germania e in Italia all’inizio del 2007. Secondo alcuni osservatori, questi effetti potrebbero essere temporanei e in parte mitigati dalla dinamica sottostante dell’economia. Secondo altri, gli effetti depressivi saranno più duraturi, e richiederanno tempi più lunghi prima che la crescita possa riprendere a pieno ritmo. L’entità delle manovre, in parte senza precedenti, rende infatti molto difficile valutarne gli effetti sull’economia reale.

Le tendenze di medio periodo e i fattori di rischio creano incertezza non solo per quel che riguarda la crescita, ma anche per l’inflazione, che è l’obbiettivo principale della politica monetaria.

L’esperienza degli anni passati mostra che per assicurare una crescita sostenibile è essenziale salvaguardare la stabilità dei prezzi.

La politica monetaria agisce, attraverso il suo strumento principale che è il tasso d’interesse a breve, per contrastare le pressioni inflazionistiche e assicurare la stabilità dei prezzi. Questo è condizione necessaria, anche se non sufficiente, per promuovere una crescita sostenuta e duratura. Chi sostiene che la politica monetaria dovrebbe dare meno importanza all’inflazione e più importanza alla crescita non ha analizzato con dovuta attenzione l’esperienza degli ultimi decenni.

Gli strumenti della politica monetaria incidono sul tasso dell’inflazione con un ritardo medio stimato (sia pure con notevole incertezza) in circa due anni. Pertanto, l’obbiettivo della politica monetaria corrente è quello di contrastare l’inflazione che potrebbe manifestarsi nel giro dei successivi due anni.

Questo è il motivo per cui non ha senso valutare la politica monetaria, cioè il tasso dell’interesse e una sua eventuale modifica, in base all’inflazione che osserviamo attualmente, o nei prossimi mesi, ma rispetto all’inflazione che potrebbe verificarsi successivamente.

In particolare, la politica monetaria va adeguata, attraverso un aumento del tasso d’interesse, non in funzione di una variazione del tasso d’inflazione dell’ultimo mese, o del prossimo, ma per contrastare pressioni che potrebbero portare a un aumento dell’inflazione in prospettiva.

Questo è quello che è accaduto alla fine dello scorso anno, quando la Banca centrale europea ha cominciato ad aumentare i tassi d’interesse, dai livelli molto bassi ai quali si trovavano.

In quel periodo, molti osservatori - politici, accademici, anche istituzioni internazionali - invitavano alla cautela perché non osservavano, in quel momento, alcun aumento rilevante dell’inflazione. Era invece chiaro, come ha poi mostrato l’evidenza, che con la ripresa economica in corso mantenere i tassi su quei livelli minimi sarebbe stato un grave errore. Avrebbe alimentato la liquidità, che già cresceva a ritmi sostenuti - sia per quel che riguarda la moneta, sia il credito - e nel tempo le pressioni inflazionistiche. Un ritardo nell’avviare l’azione restrittiva avrebbe richiesto che i tassi fossero poi aumentati ancor di più, e questo avrebbe compromesso la sostenibilità della crescita.

Nonostante l’esperienza recente, molti ancora si chiedono in questi giorni se sia necessario aumentare i tassi d’interesse allorché l’inflazione è scesa, negli ultimi due mesi, sotto il 2 per cento, in larga parte per il calo del prezzo del petrolio.

Di nuovo, quello che conta per valutare la politica monetaria non è l’inflazione di oggi, ma le prospettive di medio periodo. È evidente che con un’economia che cresce al ritmo attuale e con un’inflazione oltre il 2 per cento per i prossimi mesi, un tasso d’interesse al livello attuale, al 3,25 per cento, rischia di non essere adeguato. Tenerlo su questo livello significherebbe una politica troppo accomodante, che farebbe aumentare in prospettiva l’inflazione ben oltre il 2 per cento, obbligandoci poi a una manovra fortemente restrittiva.

Malgrado i recenti aumenti dei tassi d’interesse le condizioni di finanziamento dell’area dell’euro continuano ad essere tutt’altro che restrittive. I tassi bancari sui finanziamenti alle famiglie e alle imprese sono aumentati in misura contenuta e sono ancora su livelli bassi, se confrontati con l’esperienza storica. In parte, questo andamento ha riflesso il fatto che i tassi d’interesse a lungo termine non solo non sono aumentati in linea con l’andamento dei tassi a breve termine, ma sono addirittura diminuiti, in parte di riflesso ad andamenti di natura globale. Le condizioni di offerta di finanziamenti, misurate attraverso l’indagine sul credito bancario della Banca Centrale Europea, rimangono molto favorevoli.

L’espansione della moneta e del credito prosegue a ritmi sostenuti, per effetto del livello tuttora contenuto dei tassi d’interesse nell’area dell’euro. Il tasso di crescita annuale dell’aggregato monetario M3 è salito all’8.5 per cento a settembre. I prestiti al settore privato continuano a registrare tassi di incremento a due cifre.

Il perdurare di un forte ritmo di crescita della moneta e del credito in un contesto di liquidità già abbondante comporta rischi per la stabilità dei prezzi nel medio e lungo periodo. Gli andamenti monetari richiedono quindi un attento monitoraggio, specialmente alla luce del miglioramento della situazione economica e della forte dinamica dei mercati immobiliari in molte parti dell’area dell’euro.

Gli indicatori di prezzo basati sulle indagini congiunturali per i settori manifatturiero e dei servizi continuano a segnalare pressioni sui prezzi. Gli indici di prezzo degli input e dell’output mostrano spinte inflazionistiche derivanti in ampia misura dal rincaro delle materie prime e da una tendenza a trasmettere tali costi ai prezzi alla produzione dei manufatti.

Il processo di rimozione dell’accomodazione monetaria è stato coerente con il ritmo della ripresa economica. Non ha provocato un rallentamento della crescita, che invece continua a ritmi relativamente sostenuti. Ha garantito che le aspettative di inflazione a lungo termine rimanessero sotto controllo, assicurando la stabilità dei prezzi nel medio periodo.

L’impostazione futura della politica monetaria dipende dall’evoluzione delle condizioni di fondo dell’economia, sia nel lungo periodo sia per quel che riguarda i rischi di breve periodo.

Minore è la capacità dell’economia europea di adeguare l’offerta alla crescita della domanda, come è avvenuto in passato, maggiori sono i rischi d’inflazione e dunque maggiore deve essere la reattività della politica monetaria. Questo è il motivo per cui la BCE richiama l’attenzione sulla necessità di attuare riforme strutturali, che rendano i mercati del lavoro e dei beni più adattabili, e sulla necessità di risanare le finanze pubbliche.

L’incertezza sulla capacità dell’economia europea di generare una crescita non inflazionistica e sui rischi di breve-medio periodo non consentono di anticipare l’evoluzione della politica monetaria oltre le prossime settimane.

È fondamentale per la Banca centrale continuare a vigilare con molta attenzione per contenere i rischi alla stabilità dei prezzi. In questo modo la politica monetaria può contribuire a sostenere la crescita e l’occupazione.

Rimane essenziale, per tutti i paesi dell’area dell’euro, aumentare il potenziale di crescita. Questo obbiettivo può essere raggiunto solo tramite ulteriori riforme. Di recente sono stati fatti importanti progressi, ma l’esperienza di molti paesi, inclusi quelli europei, mostra che c’è ancora molto da fare.

Se si vuole che l’attuale fase di ripresa non sia transitoria e non si esaurisca a breve, com’è avvenuto in passato, questo è il momento di agire.

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