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Quale Agenda per la Politica Economica Europea?

Intervento di Lorenzo Bini Smaghi, Membro del Comitato esecutivo della BCE
XVIII Villa Mondragone International Economic Seminar on
“Europe: A New Economic Agenda”
CEIS – University of Rome Tor Vergata
26-27 July 2006

Nel porsi la domanda sull’agenda per la politica economica europea dei prossimi anni, non bisogna dimenticare il particolare assetto istituzionale europeo, che combina una politica monetaria unica nell’area dell’euro con politiche di bilancio e strutturali decise e messe in atto a livello nazionale, sebbene nell’ambito di meccanismi di coordinamento europei, quali il Patto di Stabilità e Crescita per le politiche di bilancio e l’Agenda di Lisbona per le politiche strutturali.

A meno che non si voglia rimettere in discussione l’assetto istituzionale esistente, appare dunque più opportuno parlare di agenda per le politiche economiche in Europa. Si deve pertanto esaminare in modo distinto le tre principali politiche: quella monetaria, quella di bilancio e quella strutturale.

Per quel che riguarda la politica monetaria, la strategia appare tracciata in modo chiaro.

Dopo un lungo periodo nel quale i tassi d’interesse sono stati mantenuti su livelli minimi storici - il 2 per cento in termini nominali e zero, o lievemente negativi, in termini reali – la ripresa dell’economia europea nella seconda parte del 2005 e l’emergere di pressioni inflazionistiche hanno reso necessario un aggiustamento.

In un contesto di ripresa economica e di pressioni inflazionistiche, mantenere il tasso d’interesse della banca centrale al livello del 2 per cento in termini nominali - e come indicavo prima addirittura negativo in termini reali - sarebbe stato un grave errore di politica economica. Avrebbe comportato un allentamento delle condizioni monetarie, che entro breve si sarebbe trasformato in un aumento dell’inflazione. Una volta innescata la spirale inflazionistica, sarebbe stato necessario un aumento ancor più marcato e repentino dei tassi d’interesse che, a quel punto, avrebbe di sicuro avuto un effetto recessivo e avrebbe ostacolato la ripresa.

L’aumento del tasso d’interesse, dal 2 per cento nel Dicembre scorso al 2,75 per cento in Giugno, ha avuto come obbiettivo di contrastare le pressioni inflazionistiche e di continuare a sostenere la ripresa economica in corso.

Nei mesi che verranno, la politica monetaria continuerà a seguire la stessa impostazione, adeguando progressivamente il livello del tasso d’interesse in funzione delle pressioni inflazionistiche e del ritmo di crescita.

Nonostante i recenti aumenti, i tassi d’interesse reali, a breve e a lungo termine, rimangono in tutta l’area dell’euro su livelli minimi storici e contribuiscono a sostenere la ripresa economica.

Come insegna l’analisi economica, questo è possibile solo grazie al fatto che i mercati finanziari continuano a prevedere, per i prossimi anni, un tasso d’inflazione basso, intorno al 2 per cento. In effetti, nonostante l’aumento del prezzo del petrolio e le altre spinte inflazionistiche, i mercati finanziari continuano ad avere fiducia nel fatto che la Banca Centrale Europea manterrà l’inflazione sotto il 2 per cento nei prossimi anni.

Di questa fiducia traggono beneficio tutti gli operatori, in particolare i governi. Se oggi i governi dell’area dell’euro riescono a indebitarsi a 10 anni a un tasso d’interesse nominale intorno al 4 per cento, questo non è certo grazie alle virtù delle finanze pubbliche, ma alla credibilità della politica monetaria messa in atto dalla Banca Centrale Europea in questi anni.

Se i mercati non avessero fiducia nella capacità della Banca centrale di assicurare la stabilità dei prezzi, i tassi d’interesse nominali e reali sarebbero più alti. Questo, di certo, sarebbe un danno per l’economia europea.

Se si concorda con questa analisi - cioè che i tassi d’interesse sono bassi grazie alla fiducia dei mercati nella politica monetaria - ci si può chiedere come mai alcuni esponenti politici chiedono alla Banca centrale di non dare eccessiva importanza all’inflazione. Addirittura qualcuno propone di rivedere il mandato della BCE, per controbilanciare l’obbiettivo della stabilità dei prezzi con qualche altro obbiettivo, legato alla crescita o all’occupazione.

La letteratura economica degli ultimi 30 anni, da Kydland e Prescott a Lucas e tanti altri, che oramai viene insegnata nei corsi di base di macroeconomia, dimostra ampiamente che è proprio concentrandosi sull’obbiettivo della stabilità dei prezzi, ed essendo credibile nel raggiungere questo obbiettivo, che la politica monetaria riesce a dare un contributo duraturo alla crescita economica e all’occupazione. Questo è confermato dall’esperienza storica, in particolare quella degli anni 70, quando fu proprio il tentativo delle banche centrali di alcuni paesi di stimolare la crescita dopo il primo shock petrolifero, senza tener conto delle conseguenze sull’inflazione, a determinare una delle più forti recessioni della seconda metà del secolo scorso. Anche gli sviluppi dei nostri giorni confermano che le banche centrali che hanno un obbiettivo chiaro, in termini di stabilità dei prezzi, sono in grado di assicurare tassi d’interesse più bassi mentre quelle che non hanno un obbiettivo chiaro hanno evidenti difficoltà a mantenere la stabilità dei prezzi e ad evitare di innescare volatilità. Non è un caso che tutte le recenti riforme degli statuti delle banche centrali abbiano attribuito a queste ultime l’obbiettivo prioritario della stabilità dei prezzi.

Che cosa muove allora la richiesta che la Banca centrale dia meno importanza alla stabilità dei prezzi?

Una ipotesi è forse una conoscenza approssimativa dei fatti.

Sin dalla creazione della moneta unica, l’area dell’euro ha conosciuto un periodo di stabilità monetaria, caratterizzata in particolare da una bassa inflazione. C’è chi sostiene però che questa bassa inflazione è stata in parte anche causa della bassa crescita registrata dai paesi dell’area dell’euro.

Viene spesso fatto il confronto tra la crescita dell’area dell’euro e quella degli Stati Uniti. In effetti, dal 1999 al 2005 gli Stati Uniti sono cresciuti a un ritmo medio del 3 per cento, oltre 1 punto in più dell’area dell’euro. Secondo alcuni, la responsabilità della peggiore performance europea risiede proprio nella politica monetaria, che non darebbe sufficiente importanza all’obbiettivo della crescita.

Ci sono molte risposte a questa critica.

Un punto che vorrei sottolineare oggi è che c’è una parte rilevante dell’area dell’euro che, con la stessa politica monetaria, è cresciuta a un ritmo simile a quello degli Stati Uniti. E’ l’area di cui fanno parte tutti i paesi che hanno aderito all’euro, esclusa la Germania, la Francia e l’Italia. Rappresenta circa il 30 per cento dell’area dell’euro e oltre 100 milioni di persone. Non è ovviamente la maggioranza dell’area, ma una parte significativa.

Nel periodo 1999-2005 il tasso di crescita medio di questa parte dell’area dell’euro è stato del 2,9 per cento, lo stesso degli Stati Uniti.

Il reddito pro capita di quest’area è cresciuto a un ritmo addirittura superiore a quello degli Stati Uniti. Il reddito medio pro capita di questi paesi, che nel 1999 era pari al 94 per cento di quello medio dei 3 grandi paesi, nel 2005 l’ha superato.

Tutti gli indicatori di performance mostrano che questo sottoinsieme dell’area dell’euro ha registrato risultati molto rilevanti, nettamente migliori di quelli dei tre grandi paesi e in molti aspetti comparabili a quelli degli Stati Uniti. Ad esempio il tasso di occupazione è salito di 6 punti, il doppio dei 3 grandi. Il tasso di disoccupazione medio è sceso di 2 punti percentuali, al 7,7 per cento, contro il 9 nei tre grandi.

Cosa mostrano questi dati?

All’interno dell’area dell’euro alcuni paesi hanno avuto risultati brillanti, comparabili a quelli degli Stati Uniti mentre altri paesi sono in affanno. I tre grandi paesi sono quelli maggiormente in affanno.

Questo significa che non è la moneta unica a spiegare i risultati deludenti dei tre grandi paesi, e dell’area dell’euro in generale, ma qualcos’altro.

Per un certo periodo si è ritenuto che una parte delle colpe della performance non soddisfacente dell’area dell’euro derivasse dai vincoli alle politiche di bilancio. Questa valutazione si basava sull’idea che i vincoli del Patto di Stabilità e Crescita erano eccessivamente stringenti, tali da non consentire di rilanciare l’economia o di attutire gli shock recessivi.

Alla base di questa tesi è l’ipotesi che una politica di bilancio espansiva produce sempre e comunque un effetto positivo sul reddito.

L’esperienza europea mostra il contrario. Nel 1999 i tre grandi paesi dell’area dell’euro registravano un saldo negativo di bilancio, corretto per il ciclo, pari a circa l’1,5 per cento del Pil, sostanzialmente uguale alla media dell’altro gruppo di paesi. Nel 2005, il passivo dei tre grandi è raddoppiato mentre quello degli altri si è annullato. In questi 6 anni la divergenza delle politiche di bilancio tra i due gruppi di paesi è stata pari allo 0,5 per cento all’anno. Questa misura non viene influenzata dal diverso andamento ciclico e dal diverso tasso di crescita potenziale delle varie economie. Non si può dunque affermare che la diversa performance sia dovuta alla diversa crescita dei due gruppi di paesi.

Nonostante la politica fiscale più espansiva nei tre grandi paesi, il loro tasso di crescita medio è stato inferiore.

Questa esperienza dimostra che in una situazione come quella dei tre grandi paesi europei, con debito pubblico elevato e in alcuni casi crescente - soprattutto quando si prende in considerazione il debito implicito derivante dalla spesa sociale e pensionistica - la politica di bilancio espansiva non aiuta l’economia a crescere di più. Finanze pubbliche precarie creano incertezza e ansia presso gli operatori; deprimono i consumi e gli investimenti.

Questo principio viene oramai ampiamente riconosciuto, anche nel contesto del nuovo Patto di Stabilità e Crescita.

I bilanci pubblici dei tre grandi paesi rimangono fuori dai parametri concordati. Le correzioni previste per i prossimi anni non sono adeguate all’esigenza di ridurre ogni anno il disavanzo di almeno mezzo punto di Pil all’anno. Per il 2006, il saldo di bilancio corretto per il ciclo non è previsto migliorare in modo significativo rispetto allo scorso anno. Inoltre, le misure correttive previste - come quelle in Germania per il 2007 - tendono a concentrarsi sull’aumento delle entrate, invece che sul contenimento delle spese.

In sintesi, si rischia di ripetere gli errori del passato. La ripresa economica non viene sfruttata per risanare i conti pubblici, con il pretesto che “non bisogna uccidere la ripresa”. Emerge così il rischio che il successivo rallentamento economico produca un peggioramento della finanza pubblica che dovrà poi essere corretto in un momento ben peggiore per l’economia. Riemerge in prospettiva il rischio di una politica fiscale pro-ciclica, espansiva quando l’economia riparte e restrittiva quando rallenta, uno dei problemi maggiori dell’Europa negli anni passati.

E questo non è certo colpa del patto di Stabilità e Crescita.

In sintesi, il risanamento dei conti pubblici rimane un punto fermo dell’agenda di politica economica europea, soprattutto per i 3 grandi paesi.

L’altro punto che rimane all’agenda riguarda le riforme strutturali.

La situazione è alquanto diversa nei vari paesi. Guardando agli indicatori, in particolare quelli usati nel processo di Lisbona, non si può non notare che i 3 maggiori paesi sono quelli dove maggiore è il ritardo, in particolare per quel che riguarda i mercati dei prodotti e del lavoro.

La crescita economica in Italia, in Francia e in Germania è bassa perché in questi paesi i mercati non funzionano in modo adeguato, come negli altri paesi, siano essi all’interno o all’esterno dell’area dell’euro. Non sono state fatte sufficienti riforme, in tutta una serie di settori, mentre nel resto del mondo, incluso nei paesi più piccoli dell’area dell’euro, il processo di liberalizzazione è proseguito, incrementando la capacità di competere delle rispettive economie e di reagire agli shock esterni.

Questi ritardi sono noti.

Il problema non sembra essere solo di capacità decisionale per adottare le necessarie misure di ammodernamento delle rispettive economie. Vi è anche un problema culturale e politico.

In effetti, non si può negare che anche nei 3 maggiori paesi siano stati fatti tentativi per riformare le rispettive economie, con interventi sul mercato del lavoro, sulle pensioni, con liberalizzazioni e privatizzazioni, che hanno in parte dato dei risultati positivi. Il problema è che non è stato fatto abbastanza rispetto agli altri. Questo si traduce, alla fine dei conti, in un impoverimento relativo del paese.

Un problema oggettivo è che i governi che hanno provato a fare delle riforme non sempre ne hanno tratto beneficio in termini politici. Non sempre sono stati ricompensati dagli elettori. Questo non è un problema di poco conto perché senza il consenso popolare appare difficile in una democrazia attuare delle riforme.

L’agenda della politica economica europea appare dunque in larga parte un’agenda politica vera e propria, piuttosto che specificamente di politica economica, e un’agenda nazionale, piuttosto che europea, perché le riforme necessarie a migliorare il funzionamento delle economie sono una competenza delle autorità nazionali, non di quelle europee. L’agenda di Lisbona presenta solo un metro di confronto, che dimostra solo che alcuni paesi hanno fatto meglio degli altri.

Quali sono le vie da seguire per le autorità di politica economica per far fronte al ritardo accumulato dai rispettivi paesi?

Le linee sono sostanzialmente due.

La prima linea - che si potrebbe denominare dell’umiltà - è di prendere sul serio il processo di Lisbona. Consiste nell’accettare il fatto che solo con le riforme, come hanno fatto gli altri paesi, si può riprendere il processo di crescita. Non è un sentiero molto originale. Si tratta di copiare quello che hanno fatto gli altri e che si è dimostrato funzionare, senza far ricorso alla cosiddetta eccezione nazionale, sia essa francese, italiana o tedesca.

Non è necessariamente un processo facile, soprattutto per i paesi più grandi che hanno tendenza a credere che quello che fanno sia per definizione migliore. Si tratta di riconoscere che alcune decisioni del passato erano sbagliate e vanno corrette e che molto rimane da fare. È necessario convincere i cittadini che senza un cambiamento rapido, nella direzione seguita da altri, il processo di relativo impoverimento del paese non può che continuare.

L’altra linea che è stata e che viene seguita in alcuni casi è di non riconoscere i problemi, di pensare che lo status quo sia sostenibile; peggio, di attribuire agli altri le colpe dei risultati negativi.

La lista dei capri espiatori è lunga. Ha in genere un comune denominatore: l’Europa.

Le colpe dei mali nazionali vengono attribuite all’Europa. Vengono attribuite alla Banca centrale europea, e allora bisogna rivederne il mandato. Vengono attribuite all’euro, e allora bisogna subordinare la politica monetaria al tasso di cambio. Vengono attribuite al Patto di Stabilità e Crescita e allora bisogna riformarlo. Vengono attribuite al Processo di Lisbona, perché non ha portato le necessarie riforme strutturali, come se i poteri per riformare i mercati fossero stati trasferiti a livello europeo e non fossero invece esclusiva competenza nazionale.

Non so come chiamare questa secondo approccio, ma di sicuro è perdente, soprattutto per i cittadini.

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