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La competitività dell'Italia

Intervento di Tommaso Padoa-Schioppa al convegno della Piccola Industria "Saper crescere, Poter crescere" Parma, 17 marzo 2001

  • Parlo di fronte a questo uditorio con la consapevolezza che ciascuno di coloro che ascoltano ha contemporaneamente tre funzioni: è responsabile di un'impresa, il cui interesse è produrre e guadagnare; è rappresentante di un settore dell'economia (prevalentemente la piccola industria) che ha interessi di categoria, cioè distinti e talora opposti a quelli di altre categorie; ma è anche membro di quella che si usa chiamare la classe dirigente del nostro paese. Chi di voi si pone il problema della competitività dell'Italia (questo è il titolo assegnato al mio intervento) non può; prescindere da nessuna delle tre funzioni; in particolare non può; prescindere dalla terza di esse perché solo in termini di un interesse generale può; superare, e qualche volta deve correggere, l'interesse d'impresa o quello di categoria, e solo in termini di interesse generale acquista significato applicare la nozione di competitività non a una sola impresa o a una categoria, ma all'intera Italia. Il tema della competitività si pone infatti contemporaneamente a diversi livelli: continenti nel mondo, paesi in un'area come l'Unione europea, settori entro un paese, imprese entro un settore produttivo. Parlerò; prima di competitività dell'Europa, poi dell'Italia.

  • Valutare l'economia europea significa confrontarla con gli Stati Uniti d'America. Se chiamiamo "miracolo" un evento favorevole che si ritiene impossibile, quello che gli USA hanno compiuto negli ultimi anni può; ben dirsi un miracolo economico. Negli ultimi dieci anni il Prodotto interno lordo degli Stati Uniti è cresciuto di circa il 34 per cento, e in cinque di questi anni la crescita è stata pari o superiore al 4 per cento; in Europa la crescita cumulata non ha raggiunto il 20 per cento. Dal 1960 a oggi il numero di occupati negli USA è più che raddoppiato, mentre in Europa è cresciuto solo di un quarto. Il rapporto fra occupati e popolazione in età lavorativa supera di oltre 10 punti percentuali quello europeo. La produttività è cresciuta, dalla metà degli anni novanta, a un tasso medio annuo (2,4 per cento) più che doppio di quello europeo. Alla fine degli anni novanta la quota di prodotti ad alta tecnologia sul totale delle esportazioni era vicina al 30 per cento negli Stati Uniti, del 15 per cento circa nell'Unione europea. La crescita potenziale statunitense è oggi stimata intorno al 3,5-4 per cento, quella di Eurolandia al 2-2,5.

  • La competitività è dunque un problema per l'Europa, non solo per l'Italia. È diffusa una tesi pessimista secondo cui, nella concorrenza tra grandi aree, l'Europa sarebbe condannata: o restare in un circolo vizioso di poco mercato, rigidità, poca mobilità, iper-protezione sociale; oppure, diventare America essa stessa, adottare in tutto e per tutto il modello americano di Stato e di società. Due corni di un dilemma ugualmente sgraditi e ardui da percorrere, da un punto di vista economico, sociale, politico.

  • Non condivido né l'una né l'altra versione della tesi pessimista. A entrambe contrapporrei una tesi della possibilità, che esprimerei così: il miracolo USA non è irripetibile, né la formula americana è l'unica atta a conseguirlo. L'Europa può; correre e vincere senza abbandonare il suo modello, purché ne corregga difetti ed eccessi. Ha già compiuto passi rilevanti. Molto le resta da fare.

  • Il modello europeo ha un proprio connotato di fondo nell'estesa e solida rete di sicurezza socialeassegnata allo Stato, ad altri poteri pubblici e a istituzioni sociali. In tutta Europa, con specificità diverse da paese a paese ma secondo principi comuni, questa rete si è costituita negli ultimi due secoli per far fronte ai bisogni delle classi più umili, rimuovere la povertà, aiutare il disoccupato, garantire assistenza agli anziani, assicurare una pensione ai lavoratori e agli invalidi civili, una copertura sanitaria ad ampi strati della popolazione, un'istruzione di base a tutti. Nei principali paesi europei la spesa pubblica per prestazioni sociali è circa un quarto del Prodotto interno lordo, mentre negli USA è circa del 15 per cento. La spesa sanitaria è coperta dallo Stato per l'80 per cento nell'Unione europea, per poco più del 40 negli Stati Uniti.

  • Grandi riforme del proprio assetto economico l'Europa ne ha già compiute, soprattutto nell'ultimo quindicennio: il mercato unico, la convergenza macroeconomica, l'euro sono le più importanti. Riforme di enorme portata, forse maggiori di quelle compiute da ogni altra comunità di paesi. Non dobbiamo dimenticare che, alla firma del Trattato di Roma (1957), le cosiddette quattro libertà (di circolazione di beni, servizi, capitali e persone) che i paesi si impegnavano a darsi tra loro, non erano ancora realizzate nemmeno entro i paesi stessi.

  • Molto però; resta da fare per conciliare il modello europeo con le regole di una competizione mondiale. Nei servizi di pubblica utilità la concorrenza è scarsa o assente. Nel mercato del lavoro le regole proteggono chi già ha un lavoro, non chi lo cerca. I mercati dei prodotti sono ancora fortemente irrigiditi da regole e divieti. Il percorso da compiere è lungo, e va affrontato a più livelli: autorità politiche nazionali, parti sociali, società nel suo complesso.

  • La solidarietà sociale è un valore che non va perduto; non è necessario sacrificarla per essere competitivi e per crescere.Basta osservare i recenti risultati di alcuni paesi per avere una conferma delle potenzialità del modello europeo. L'Olanda e l'Irlanda hanno dimezzato il loro tasso di disoccupazione nell'arco di un decennio; la Finlandia, dalla metà degli anni novanta, lo ha ridotto di più di 8 punti percentuali. Queste e altre economie in Europa hanno saputo combinare, seppure con diverse formule, tradizione di stato sociale con importanti guadagni di competitività.

  • Spostiamo lo sguardo dal globo al continente, e osserviamo il nostro paese. Come l'Europa nel mondo, così l'Italia in Europa ha compiuto grandi progressi nel colmare squilibri che duravano da decenni ed erano ancora gravissimi all'inizio di quello appena concluso; ma, come l'Europa, così l'Italia soffre di lentezze, incompiutezze, ritardi. Politiche macroeconomiche, sostenute dall'impegno concertato delle parti sociali, hanno riportato l'inflazione sotto il 3 per cento. I conti pubblici sono stati risanati. Si sono avviate importanti riforme strutturali che hanno dato più libertà e miglior disciplina ai mercati, favorito lo sviluppo regionale, sollevato lo Stato dalla gestione di attività produttive. Proprio sul finire del decennio, il lungo sforzo di risanamento ha incominciato a dare frutti. La crescita del Pil, del 2,9 per cento, e l'aumento dei posti di lavoro, del 1,9 per cento, sono stati nell'ultimo anno il risultato migliore conseguito dall'inizio degli anni novanta.

  • I recenti dati positivi, tuttavia, non bastano ancora a far uscire il Mezzogiorno dal suo ritardo storico, ad allargare l'ingresso nel mercato del lavoro, a offrire fiducia ai giovani, a realizzare appieno le potenzialità dell'Italia. Il rapporto fra occupati e popolazione in età lavorativa è circa dieci punti sotto la media europea. Il tasso di partecipazione non aumenta, mentre sale negli altri paesi europei. La dinamica dei costi e dei prezzi italiani, dopo l'avvio dell'euro, supera ancora di circa un punto all'anno la media dei concorrenti europei.Non inganni l'esiguità di questa cifra, né il fatto che non si possa propriamente parlare d'inflazione: è una cifra che deve preoccupare perché segnala una continua perdita di competitività. Il documento elaborato da Confindustria rileva un deterioramento della posizione concorrenziale dell'Italia nell'area dell'euro, un peggioramento del saldo commerciale, una complessiva erosione delle quote di mercato.

  • Che cosa frena la crescita dell'economia italiana? Gli impedimenti non vengono dal fatto di essere in Europa. Le strade che l'Europa ci ha chiuso non sono quelle della prosperità economica, ma quelle del disordine e del declino: inflazione, svalutazione del cambio, bilanci pubblici squilibrati, finanza protetta, assistenza a imprese perdenti. Se da questi mali ci siamo quasi liberati lo dobbiamo in gran parte alla spinta europea e al desiderio, profondo e diffuso tra gli italiani, di essere in Europa.

  • Dall'Europa non vengono impedimenti, ma neppure soluzioni. Il mercato e la moneta unica danno maggior crescita e maggior stabilità all'intera area dell'euro, ma non distribuiscono questo beneficio a ciascuno in parti uguali, o secondo un criterio politico. Anche in un gioco a somma positiva, alcuni vincono molto, altri di meno, altri addirittura perdono; dipende dall'abilità con cui partecipano alla contesa. L'Unione europea richiama all'ordine o punisce chi viola le regole, non chi è meno bravo di altri. La bravura ogni paese deve sapersela dare da sé, con volontà, allenamento, intelligenza delle situazioni, senso dell'interesse nazionale. Proprio in questo tipo di contesa l'Italia (come oggi la Spagna, il Portogallo, l'Irlanda, l'Olanda) ha primeggiato per molti, molti anni; e crescendo a ritmi nettamente superiori alla media europea, ha recuperato secolari ritardi. Nulla esclude che ciò; avvenga di nuovo.

  • Se allora ci interroghiamo sulla competitività italiana guardando alla componente del nostro sistema produttivo presente in questa sala, ci colpisce che rispetto a dieci anni fa, i principali punti di forza e di debolezza del modello produttivo nazionale si siano estremizzati. È diminuita la dimensione media di impresa. È aumentata la specializzazione tecnologica e commerciale nei comparti tradizionali. Si è aggravata la debolezza dei settori dove prevalgono grandi dimensioni, economie di scala, contenuto tecnologico.

  • Alle piccole imprese del Made in Italy vail grande merito storico di avere fatto uscire l'Italia dalla povertà e dalla crisi di un'agricoltura ad alta intensità di lavoro. Esse sono all'origine della crescita italiana dal dopoguerra a oggi. Con vitalità, inventiva, ambizione, cura della qualità hanno raccolto le nuove sfide competitive e smentito chi si aspettava che interi settori soccombessero alla concorrenza di paesi di nuova industrializzazione. Attraverso lo sviluppo dei distretti industriali, hanno compensato gli svantaggi della piccola dimensione con elevata specializzazione, flessibilità nell'utilizzo dei fattori produttivi, sviluppo di reti di collaborazione e di informazione, economie esterne. Sono, questi, risultati e meriti che la piccola industria ha acquisito per l'intera economia, non solo per sé.

  • Non vi è stato, però;, un dinamismo equivalente nella rimanente parte del sistema produttivo, sicché oggi la piccola industria non è sufficientemente affiancata da un ampio e vitale comparto di medie e grandi imprese industriali. La grandezza media delle imprese è diminuita in tutte le economie industriali, riflettendo mutamenti strutturali nell'organizzazione produttiva. Ma in Italia il fenomeno è stato tanto pronunciato da divenire un'anomalia: le imprese con meno di 10 addetti danno oggi impiego a una quota dell'occupazione totale circa doppia della media europea (più del 45 per cento). La proporzione del lavoro autonomo nell'occupazione non agricola è, in Italia, oltre due volte e mezzo quella di Francia e Germania (del 10 per cento circa). In circa vent'anni l'occupazione delle imprese manifatturiere con più di 500 addetti è scesa intorno al 15 per cento del settore, dimezzando la propria incidenza; è del 56 per cento in Germania e del 43 in Francia. Le imprese medie, quelle fra 100 e 400 addetti, rappresentano solo il 10 per cento del totale, contro il 17,5 in Germania e il 16 in Francia.

  • Il relativo declino dell'industria grande e media è nocivo alla crescita e alla competitività, perché dimensione aziendale, innovazione e sviluppo economico tendono a muoversi insieme. La grande innovazione industriale nasce da un tipo di ricerca che è prerogativa della grande impresa, non della piccola: circa l'80 per cento della ricerca industriale italiana si fa in imprese con oltre 500 addetti, mentre non se fa quasi nulla al di sotto di 50 addetti. Conseguenze del declino dell'industria media e grande sono l'esiguità del contributo dei beni ad alta intensità tecnologica al totale delle esportazioni di manufatti (solo la metà della media europea) e della propensione a investire in ricerca e sviluppo (meno della metà che in Francia e Germania). Si è cosi accresciuta, negli anni, la specializzazione produttiva e commerciale nelle lavorazioni tradizionali: un terzo degli addetti del settore manifatturiero è occupato in industrie alimentari, tessili, del cuoio e del legno, dove sono presenti il 40 per cento delle imprese.

  • Un sistema produttivo povero d'imprese medie e grandi, povero di ricerca, concentrato in industrie mature a bassa intensità tecnologica, è un sistema poco competitivo, nel quale anche la piccola industria, che pure ne costituisce l'elemento di forza, rischia di vedere ridotti i margini per forti guadagni di produttività e per effetti di ricaduta da altri settori. Le potenzialità di crescita di un sistema economico si fondano certo anche sulla capacità di generare innovazioni minori sfruttando, modificando e diffondendo le grandi innovazioni prodotte dalla grande impresa. Ma questa stessa capacità rischia di vedere inaridite le proprie fonti se la grande innovazione langue. La piccola industria è, insomma, parte di un sistema le cui parti e i cui problemi sono interdipendenti.

  • Il mondo della piccola industria non può;, dunque, non interrogarsi sulla crescente anomalia del sistema produttivo di cui è parte: sia perché ne patisce conseguenze negative sia perché alcune cause dell'anomalia sono collocate nel suo stesso ambito. Affinché si avvii un graduale riequilibrio della struttura industriale italiana occorre allora che, negli anni a venire, cresca il numero delle imprese che da medie diventano grandi, cresca il numero delle piccole che diventano medie. Dove sono gli ostacoli a una siffatta evoluzione?

  • Alcuni ostacoli sono esterni all'impresa. Sebbene la relazione tra assetto istituzionale e dimensioni delle unità produttive sia complessa, non vi è dubbio che, rimanendo al di sotto di determinate soglie, l'impresa gode di vantaggi competitivi: minori oneri fiscali e contributivi, minori vincoli normativi e amministrativi, rapporti di lavoro meno difficili. Sono questi i vantaggi che spingono a decentrare la produzione verso unità molto piccole, oppure a cercare il supporto del lavoro indipendente, spesso privo delle tutele assicurate a quello dipendente. Questo sistema di incentivi dovrebbe essere riconsiderato al fine di renderlo coerente con l'esigenza, che è anche della piccola industria, di una struttura produttiva più equilibrata. Il sistema delle relazioni industriali, in particolare, dovrebbe allentare alcuni dei vincoli esistenti. La contrattazione centralizzata ha svolto una funzione determinante nella lotta all'inflazione. Ma oggi incombono sfide nuove, che spingono da un lato verso un decentramento della contrattazione aziendale e territoriale, dall'altro verso politiche retributive e dell'impiego compatibili con la flessibilità che ormai caratterizza il lavoro umano. Che la creazione netta di occupazione in Italia sia avvenuta, negli ultimi quattro anni, quasi interamente nella forma di contratti temporanei o a tempo parziale suggerisce l'importanza dei passi compiuti. Ma suggerisce anche di rivedere procedure e istituti del tradizionale rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

  • Esistono, poi, fattori interni all'impresa stessa, soggettivi. Essi si riassumono nella difficoltà di passare dal mondo semplice della piccola dimensione al mondo complesso della grande. La finanza e la direzione stessa dell'impresa sono, forse, i due campi nei quali il passaggio è più arduo, tale da spaventare l'imprenditore e scoraggiarlo dal lasciare il porto sicuro di un'attività ancora interamente "sua", familiare in ogni senso. Piccola dimensione significa minore bisogno di capitali, meno banche per casa, rapporto diretto e continuo con chi fa il lavoro, verità dei rapporti umani, concentrazione della proprietà e del controllo, comando esercitato direttamente dal titolare. La transizione verso una dimensione "media" può; apparire una vera e propria rottura, addirittura un'estraniazione.

  • Accrescere la competitività e colmare i ritardi del sistema produttivo dell'Italia sono obiettivi che richiedono l'impegno di tutti: classe politica, parti sociali, imprese. Richiedono un ambiente favorevole allo sviluppo, e scelte responsabili della classe dirigente, di cui i piccoli imprenditori sono parte. Chi ha interesse alla competitività dell'Italia deve oggi auspicare un rafforzamento della media e della grande industria, non solo della piccola, e deve adoperarsi attivamente per questo rafforzamento. La stessa piccola industria, la categoria che ha dato all'Italia crescita e benessere, ha bisogno di essere affiancata da un robusto settore di medie e grandi industrie, senza il quale essa stessa sarebbe fragile e precaria.

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