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Intervista con Le Monde e La Stampa

Intervista a Benoît Cœuré, membro del Comitato esecutivo della BCE, condotta il 3 luglio 2017 da Marie Charrel per Le Monde e Alessandro Barbera per La Stampa e pubblicata il 7 luglio 2017

Sta tornando l’ottimismo nell’area dell’euro. Siamo all’alba di un “decennio d’oro”?

È vero che nel giro di un anno la situazione è migliorata notevolmente. Si può dire che l’area dell’euro sia rientrata in una fase di espansione economica. Finalmente c’è la ripresa. Si è diffusa in tutti i settori e a tutti i Paesi. Sono notizie eccellenti. Ma sarebbe imprudente abbassare la guardia. Questa ripresa è infatti di natura congiunturale e si regge sul notevole sostegno fornito dalla politica monetaria. Resta molto da fare affinché persista nel tempo. Occorre rafforzare la crescita strutturale di ciascun Paese e rendere l’area dell’euro più resistente agli shock.

L’elezione di Macron in Francia ha appena rilanciato il dibattito sul rafforzamento dell’area dell’euro. Quali saranno le priorità da mettere in cantiere?

La priorità sono le riforme in ciascun Paese. Questo vale, fra gli altri, per la Francia e l’Italia, ma anche per la Germania. Oggi, ad esempio, vediamo realizzata, nel complesso, la convergenza dei tassi di crescita dei vari Paesi, ma i redditi pro capite di ciascuno sono ancora molto divergenti. Questo è un problema per l’area dell’euro. Quando tutti gli Stati avranno fatto la loro parte, allora potranno rafforzare le proprie strutture comuni. A titolo personale, ritengo che in futuro ciò richieda istituzioni più forti, ad esempio un ministero delle finanze dotato di un bilancio comune, ma attenzione a non mettere il carro davanti ai buoi.

Come convincere i tedeschi a muoversi in direzione di un bilancio comune?

Non vi sarà una politica di bilancio unica, poiché questa non è la volontà degli Stati. La messa in comune di un bilancio non è che uno strumento per permettere di finanziare progetti collettivi. Per compiere progressi in questo senso, occorre spazzare via i pregiudizi che paralizzano il dibattito fra gli Stati membri. In Germania, ad esempio, si ritiene che sia stata soltanto Berlino a pagare per gli altri paesi durante la crisi, il che è falso. In Francia si pensa che l’Europa sia dominata dalla Germania, e anche questo è falso. Quanto all’Italia, il pregiudizio consiste nel credere che l’euro sia responsabile dei problemi del Paese, mentre invece le debolezze dell’economia italiana, come la produttività anemica, risalgono a prima della moneta unica. Questi pregiudizi non si dissolveranno fino a quando non vi sarà una sufficiente convergenza delle economie.

Perché una maggiore flessibilità del mercato del lavoro sembra essere la chiave di volta delle riforme da realizzare in Francia?

La riforma del mercato del lavoro francese ha acquistato un forte valore simbolico in Europa: ovunque è considerata la prova della volontà di riforma del Paese. Ciò la rende indispensabile. Il nuovo governo francese ne ha piena consapevolezza. Tuttavia non può essere che la prima tappa. La famosa “flexsecurity” racchiude il termine sicurezza. Rendere il mercato del lavoro più flessibile può liberare energie, ma richiede anche di salvaguardare il percorso professionale dei lavoratori e di innovare la formazione. C’è poi un problema di inadeguatezza tra l’offerta produttiva della Francia e la domanda estera, che si riflette nel suo disavanzo commerciale uno dei più elevati dell’area dell’euro. Questo disavanzo non è imputabile all’eccessiva rigidità del mercato del lavoro bensì all’inadeguatezza delle competenze. Al centro delle riforme dell’economia francese devono quindi esserci la formazione e l’istruzione.

Bisogna ispirarsi alla riforma italiana del “Jobs Act”, che ha instaurato un contratto di lavoro unico?

Ogni Paese ha le sue peculiarità, ma è vero che con il “Jobs Act” l’Italia si è spinta più avanti della Francia. Questa riforma comincia fra l’altro a dare i suoi frutti.

Sono allo studio anche vari progetti di eurobond, le obbligazioni europee che comporterebbero più o meno la condivisione dei rischi fra i paesi membri. A che punto sono le riflessioni al riguardo?

La questione è allo studio, soprattutto nell’ambito del Comitato europeo per il rischio sistemico. Ma è un’illusione immaginare, come si fa troppo spesso in Francia, che soluzioni tecniche possano porre rimedio ai problemi politici. A monte di qualsiasi riforma nell’area dell’euro occorre discutere i progetti comuni e il loro fondamento democratico. Il debito pubblico, francese o europeo che sia, rappresenta le imposte di domani o dopodomani. Chi voterà queste imposte? I parlamenti nazionali o il Parlamento europeo? Cosa finanzieranno? Sono scelte profondamente politiche. Con la ripresa e il ritorno della fiducia in Europa, è arrivato il momento di avviare questa riflessione comune.

Il futuro rialzo dei tassi rappresenta una minaccia per i Paesi con i conti pubblici fragili?

L’aumento dei tassi a lungo termine è il frutto del consolidamento della crescita. I governi e gli operatori finanziari si devono preparare a questo e ne sono coscienti.

Le divisioni all’interno della BCE riguardo al ritiro delle misure straordinarie di politica monetaria ledono la credibilità dell’istituzione?

Se i trattati europei hanno scelto che la politica monetaria fosse guidata da un Consiglio direttivo, è proprio per lasciare spazio all’espressione dei diversi punti di vista. Lasciare spazio a diverse sensibilità è un antidoto al pensiero unico.

L’essenziale è giungere a un consenso come esito della discussione e questo avviene quasi sempre. Non vi è disaccordo riguardo all’orientamento corrente della politica monetaria.

Come evitare che la riduzione del sostegno monetario semini il panico sui mercati?

Delle opzioni a disposizione della BCE viene data troppo spesso un’immagine distorta. Alcuni osservatori temono che traumatizziamo i mercati finanziari se modifichiamo di un millimetro la rotta della politica monetaria, mentre altri vorrebbero una normalizzazione a tappe forzate.

La realtà è un’altra. Lo scorso dicembre abbiamo già ridotto l’entità dei nostri acquisti di titoli senza compromettere il sostegno all’economia. Direi che abbiamo già aggiustato la nostra politica monetaria e questo grazie al miglioramento della situazione economica.

Tale aggiustamento è stato realizzato con grande prudenza, poiché sull’inflazione pesano ancora numerosi fattori. Se necessario, il Consiglio direttivo continuerà ad adeguare i propri strumenti, dal punto di vista qualitativo e quantitativo. Ma quando sarà necessario, lo farà con prudenza e flessibilità, in base a ciò che conta ai fini del nostro mandato: le prospettive di inflazione. Dobbiamo comunicare in modo trasparente in merito a questi andamenti; non farlo significherebbe rischiare un aggiustamento più brusco dei mercati nel momento in cui le decisioni saranno effettivamente prese.

Ma l’inflazione oggi è molto prossima all’obiettivo del 2%...

Basiamo le nostre decisioni sui fatti, e non bisogna farsi illusioni: senza il sostegno monetario l’inflazione non si avvicinerebbe oggi al 2%. Questo per noi è un invito alla prudenza. Le pressioni inflazionistiche sottostanti sono ancora deboli. Un altro aspetto che seguiamo con attenzione è come il tasso negativo sui depositi presso la banca centrale stabilito dalla BCE incide sul settore bancario e sulla sua capacità di sostenere l’economia. La redditività delle banche e l’aumento del credito mostrano che i timori di effetti secondari negativi sono al momento ingiustificati. Non vi è dunque ragione, in base a queste osservazioni, di modificare la nostra strategia.

Alcuni economisti ritengono che il basso livello dei tassi contribuisca alla formazione di bolle speculative, in particolare nel settore immobiliare. Hanno torto?

Teniamo sotto attenta osservazione la stabilità finanziaria. La nostra valutazione è che attualmente non vi sono bolle a livello dell’area dell’euro. Per un motivo molto semplice: le bolle finanziarie sono storicamente associate all’aumento del credito bancario e delle dimensioni delle banche. Il credito all’economia è attualmente in ripresa, ma a un ritmo moderato. Inoltre le dimensioni del settore bancario sono limitate dalla regolamentazione.

E per quanto riguarda invece le bolle nel settore finanziario non regolamentato, cioè il “settore bancario ombra”?

In effetti si registra un rapido incremento del credito in questo settore e noi disponiamo di un numero limitato di strumenti per contenere il fenomeno. È un aspetto preoccupante per il futuro.

Mostrandosi così prudente, la BCE non rischia di ritrovarsi senza colpi in canna quando scoppierà la prossima crisi?

In effetti, il principale pericolo per l’area dell’euro è dover affrontare il prossimo rallentamento senza disporre degli strumenti necessari per reagire. Oggi l’economia dell’area cresce a un ritmo superiore alla sua velocità di crociera, soprattutto grazie al sostegno della politica monetaria. In assenza di riforme, prima o poi la crescita si esaurirà. È quindi indispensabile che l’area si prepari agli shock futuri ricostituendo margini di bilancio. I paesi più indebitati, fra cui la Francia e l’Italia, devono approfittare dell’attuale ripresa per risanare i conti pubblici. È positiva la determinazione del governo francese a riportare il disavanzo pubblico al di sotto del 3% entro quest’anno. Così si prepara il futuro e si può riacquistare credibilità in Europa.

La tentazione del protezionismo è una minaccia per l’economia mondiale?

A livello mondiale questa tentazione è molto forte. Ed è un vero problema. L’economia mondiale ha bisogno di cooperazione. La crisi del 2007 è stata superata soltanto grazie all’impegno collettivo, in particolare nell’ambito del G20 e del Financial Stability Board, a non cedere al protezionismo e a rispettare gli standard finanziari comuni. Un passo indietro rispetto a questo impegno nuocerebbe alla crescita e all’occupazione. In tale contesto, l’Europa ha la responsabilità di difendere i valori di apertura e di libera circolazione che essa incarna, senza però peccare di ingenuità. Ad esempio, gli accordi di libero scambio conclusi con il Canada e di prossima conclusione con il Giappone prevedono garanzie conformi ai valori europei in termini di rispetto delle norme sociali, servizi pubblici e ambiente. Protezione e protezionismo non vanno confusi.

Questo basta per proteggere chi è penalizzato dalla globalizzazione?

Gli strumenti a disposizione sono principalmente nazionali. E il nostro continente è probabilmente quello dotato degli strumenti migliori. Qualche anno fa la Cancelliera Angela Merkel sottolineava che l’Europa rappresentava il 7% della popolazione del pianeta, il 25% del PIL mondiale, ma ben il 50% della spesa sociale. La responsabilità primaria dei paesi europei è assicurare il buon funzionamento e la sostenibilità dei propri sistemi previdenziali garantendone il finanziamento, il che non esclude il ricorso a meccanismi europei.

Sarebbe il caso di un’assicurazione comune contro la disoccupazione?

Personalmente non ci credo molto. L’armonizzazione dei diritti dei lavoratori mi sembra un traguardo difficile da raggiungere. Ma esistono strumenti europei che potrebbero essere utilizzati meglio, ad esempio il Fondo di adeguamento alla globalizzazione. Oggigiorno sono troppo pochi i lavoratori che vi hanno accesso. Inoltre il modo migliore di tutelare i lavoratori è la formazione. Questa priorità non emerge abbastanza nei bilanci europei.

L’Italia è il malato dell’area dell’euro?

Non direi questo. A breve termine sono ottimista per l’economia italiana, che beneficia dell’incremento della crescita nell’area dell’euro. Riforme come il “Jobs Act” producono i loro frutti e il problema dei crediti deteriorati delle banche è ora affrontato proattivamente. Le prospettive di crescita del paese nel lungo periodo restano tuttavia inferiori a quelle dell’area dell’euro e questo è un problema. Ma tengo a sottolineare che il problema esisteva già prima dell’introduzione della moneta unica. Questo problema rende più difficile la riduzione del debito pubblico, che è indispensabile per il futuro del Paese.

Ma l’economia italiana beneficia veramente dell’euro?

Certamente! Il Paese trae grandi benefici dalla moneta unica, così come dall’unione bancaria. Oggi in Italia c’è una forma di sfiducia verso l’Europa, che è particolarmente preoccupante in un Paese fondatore in cui i valori comunitari sono sempre stati forti. Una delle grandi sfide nei mesi a venire sarà che l’Italia si riappropri del progetto europeo. È essenziale. L’Europa ha bisogno di un’Italia che la difenda. Il buon funzionamento dell’intesa franco-tedesca è necessario ma non sufficiente. L’Italia è un cardine della costruzione europea. Oggi abbiamo bisogno che sia una forza propositiva, a sostegno dell’euro.

Veneto Banca e Banca Popolare di Vicenza sono state liquidate con fondi pubblici. È una sconfitta per l’unione bancaria?

Direi piuttosto il contrario. La BCE, in quanto autorità di vigilanza bancaria, ha identificato i problemi a monte e ha esercitato pressioni sulle banche affinché rafforzassero i fondi propri, compito che queste hanno assolto a più riprese, e trovassero un acquirente. Una volta esaurite queste possibilità, la BCE ha dichiarato che i due enti creditizi erano in dissesto o a rischio di dissesto, avviando il meccanismo che avrebbe portato alla loro liquidazione. Le decisioni concernenti la liquidazione e l’utilizzo di fondi pubblici non sono di nostra competenza, ma tutto è stato fatto nel rispetto delle regole europee. Naturalmente ci saranno insegnamenti da trarre, ma non perdiamo di vista l’essenziale. Ormai è possibile chiudere una banca nel momento in cui non è più economicamente sostenibile. Si tratta di una rivoluzione culturale in Europa, ove si è a lungo ritenuto che occorresse mantenere in vita tutte le banche, incluse quelle non più economicamente sostenibili. Questa visione aveva contribuito alla debolezza del settore bancario europeo, che oggi conta un numero eccessivo di istituti. Dovrà consolidarsi.

I negoziati sulla Brexit nuoceranno agli investimenti nell’area dell’euro?

La Brexit è una cattiva notizia per tutti, ma è una scelta dei cittadini britannici e il suo impatto economico è assai meno importante per noi che per loro. Mentre l’incertezza politica diminuisce nell’Europa continentale, il che giova agli investimenti, nel Regno Unito sembra accadere il contrario. Sta ai cittadini britannici scegliere il proprio destino al di fuori dell’Unione europea, ma un punto deve essere chiaro: ciò non potrà rimettere in discussione la coerenza del progetto europeo e l’integrità del suo mercato unico in quanto spazio di diritto che assicura il rispetto delle regole comuni e la protezione dei consumatori e degli investitori. La missione delle istituzioni europee è tutelare questa integrità, anche nello scenario, purtroppo possibile, di un fallimento dei negoziati.

Con un’economia schiacciata da anni di crisi, quali potrebbero essere in futuro i motori della crescita in Grecia?

È la questione che ora deve affrontare il governo greco. L’accordo concluso in giugno dall’Eurogruppo, seppure imperfetto poiché non fornisce risposte chiare sulla sostenibilità del debito greco, permetterà la stabilizzazione dell’economia e la ripresa degli investimenti. Se si dissiperà l’incertezza politica, e anche riguardo all’applicazione del programma di aiuti, non ho dubbi che la Grecia sarà in grado di beneficiare di una ripresa ciclica forte che le consentirà infine di pensare al suo modello di crescita futuro. È finalmente giunto il momento di porsi queste domande in una prospettiva a lungo termine.

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